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NAKAGAMI KENJI E YANAGIMACHI MITSUO

 

 Nati rispettivamente nel 1946 e nel 1945, quindi quasi coetanei, Nakagami e Yanagimachi hanno tradotto nelle loro carriere alcuni degli elementi più emblematici dell’arcipelago, dal punto di vista sociale e politico. In entrambe le loro opere, ancorate come reportage dolenti a vari spaccati della vita di un Giappone profondo su differenti frammenti temporali, si avverte la dicotomia tra occidentalizzazione del paese e ritorno alle tradizioni, senza tuttavia mai cedere alla tentazione di tracciare bilanci nostalgici del passato[1] e dei miti autoctoni. La terra, oggetto principale delle loro esplorazioni, affiora attraverso i suoi aspetti meno idilliaci, lungo profonde lacerazioni, impietosamente rese da parole e immagini che traducono il dolore dei suoi abitanti. Il progresso, allo stesso tempo, può tradursi in paura e senso di inadeguatezza, una condizione che non può che generare una violenza avvertita quasi come necessità fisiologica.

 Differente, nonostante l’affinità tematica, l’origine dei due autori: di origine burakumin e nato a Kumano, nel cuore dei luoghi mitologici del Giappone, sospesi tra mare e monti, il primo; il secondo di estrazione contadina e cresciuto a Ibaraki, una realtà rurale al collasso dopo il boom economico, trasfigurata dal progresso. In entrambi i luoghi di origine, costante è tuttavia l’imponente impianto naturale e la presenza di persone allontanate o sul punto di allontanarsi dall’ordine sociale, legate alla comunità attraverso relazioni fragili, alienabili e vulnerabili. Malati di incomunicabilità, relegati a ruoli per cui vengono discriminati, con scarse prospettive di riscatto, mossi da istinto e in particolare da una sessualità animale, essenziale, che conduce alla solitudine. Il loro destino è contribuire con il loro ciclo esistenziale al più generale disegno che è la Storia dell’umanità, di cui restano note anonime. Una Storia che è crudele quanto la natura implacabile nelle sue manifestazioni, poiché per questi autori il “male” non è altro che un’invenzione umana.

 L’incontro tra Nakagami e Yanagimachi avviene a metà degli anni Settanta: lo scrittore si reca a una proiezione del primo film del regista, God Speed You! Black Emperor (1976), e in quell’occasione i due uomini hanno modo di scambiare parte delle loro opinioni, poi approfondite in diversi incontri al Golden Gai di Shinjuku. Dopo aver letto il racconto JËkyËsai no chizu (La mappa di un diciannovenne) di Nakagami, Yanagimachi decide di trarne un film (omonimo, 1979) e lo scrittore accetta di collaborare alla stesura della sceneggiatura. A distanza di pochi anni, nel 1984, i due riavviano la loro collaborazione per realizzare a quattro mani una delle opere migliori del decennio, Himatsuri (La festa dei fuochi), opera che proietta internazionalmente il successo del regista, ma che tuttavia sancisce il suo divorzio artistico dallo scrittore.

 

 

 

[1] A questo proposito, Yanagimachi ha infatti dichiarato: “Visto che in questi ultimi decenni in Giappone si è continuato  in modo molto repentino a scrivere un’epoca e poi a cancellarla, per poi riscriverla e cancellarla ancora, si è creato un solco incolmabile tra il presente e il passato;  (…) Il cinema giapponese non è più capace di ritrarre il passato o, quanto meno, gli è molto difficile farlo. La lezione che impariamo da tutto  questo è che il cinema non può in alcun modo sfuggire dalla realtà.” Yanagimachi Mitsuo, “Il cinema giapponese non sa ritrarre il passato”, in Yanagimachi Mitsuo, a cura di Maria Roberta Novielli, Fiammetta Girola e Bruno Fornara,  Bergamo, Ed. Bergamo Film Meeting, 1999, p. 22

 

Estratto da "IL CINEMA INCONTRA LA LETTERATURA: IL CASO HIMATSURI" in I dieci colori dell'eleganza, Roma, Aracne, 2013

 

 

 

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