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Mitologia dell'eroe nel cinema action

I tanti nomi ereditati dall’ambito letterario e teatrale precedente all’avvento del cinema, tra i quali Miyamoto Musashi e Tange Sazen, segnano una prima parcellizzazione tipologica dell’eroe, poi mai più abbandonata. Entrambi appartengono alla liminalità del mondo dei ronin , destinati a percorrere un perpetuo viaggio ai margini della società, attraverso insidie che parafrasano quelle della natura umana.

Nel caso di Miyamoto Musashi e nei personaggi della sua struttura, si identifica l’idea di una stretta e ferrea autoedificazione che, seppure non destinata a favorirne il suo inserimento sociale, crea un’aurea di forza positiva non molto distante dall’ideale romantico di un Robin Hood europeo. A questo tipo di personaggio si abbina anche una positività che solo in tarda età acquista le sfumature dell’edificazione spirituale. I personaggi alla Miyamoto, in altre parole, in molti casi rasentano l’avventatezza, ma c’è una sorta di elezione implicita intorno al loro destino che li preserva dall’errore fatale. L’identificazione del pubblico con questa tipologia umana è evidente: vi si rimettono le speranze di un riscatto morale e, allo stesso tempo, vi si riconosce una caratteristica quasi divina che lascia ben sperare nella loro protezione. Traslato in ambienti yakuza, questo tipo di eroe non di rado coincide con il poliziotto (a volte anche corrotto) che interagisce con i clan mafiosi e riafferma la legalità solo nella fase finale del film. In alternativa, è il gangster che più degli altri rispetta il codice morale e lo impone nel gruppo, anche a costo di scelte estreme e difficili. A livello iconografico, basti pensare che tra gli interpreti più spesso chiamati a mettere in scena il personaggio di Miyamoto negli anni cinquanta ci sia stato Mifune Toshiro (1920-1997), in questo ruolo particolarmente virile e baldanzoso, mentre in ambiente yakuza contemporaneo ritroviamo il Kitano di vari titoli, in particolare Sonachine (Sonatine, 1993), o nel pieno successo degli yakuza eiga ci si affidava al distaccato e nobile aspetto di Takakura Ken(1931-2014).

Diverso il messaggio affidato ai personaggi come Tange Sazen, di cui lui rappresenta la quintessenza iconografica. Nel suo caso, uomo che ha perso ingiustamente un occhio e un braccio[1], le azioni sono spinte da una rabbia quasi animale e il destino si rivela sempre avverso. Il pubblico non si identificherebbe mai con il suo aspetto misero, ma simpatizza per l’ineluttabilità della sua sconfitta e per la ferocia delle sue azioni. Il grado di romanticismo di Tange, a differenza di quello di Miyamoto, è proprio di un pathos che è tinto dall’impossibilità, si desidera da lui che distrugga le ingiustizie per poi soccombere a sua volta, permettendo quindi il ripristino totale dell’ordine e della moralità. A interpretarlo negli anni venti, non a caso, spesso veniva chiamato l’attore Okochi Denjiro, la cui recitazione puntava su una sapiente mistura di debolezza e dolcezza, abbinate a una serie di movimenti scoordinati del corpo. Intorno a questo tipo di eroe brulica quanto vi è di più disonesto e amorale. Riprodotto poi in ambiente yakuza, basti pensare alla figura di Zato Ichi portata sul grande schermo nel corso degli anni sessanta dall’attore Katsu Shintaro (1931-1997): massaggiatore cieco e giocatore d’azzardo (ovviamente sempre in viaggio), il suo handicap fisico e la sua apparente goffaggine permettono allo stesso tempo empatia e fatalismo, non si auspica che sopravviva per sempre. Il suo “guardare con l’anima”, però, lo porta al confine di un sentire divino, e in quanto tale gli si affida, come nel caso di Miyamoto, il compito di districare il male che affligge ogni singolo uomo o l’umanità intera. Oggi molti personaggi di ambiente yakuza riproducono questo prototipo, in particolare alcuni dei più noti nomi dei film di Miike Takashi (1960-), tra i quali lo yakuza di Rainy Dog (id., 1997), interpretato da Aikawa Sho (1961-), che soffre dello strano handicap di non riuscire ad agire quando piove, nonostante viva in una città estremamente piovosa come Taipei.

Che si tratti di personaggi alla Miyamoto o alla Tange, un’altra ricorrenza è offerta dalle tavole morali a cui sono tenuti ad attenersi. Di loro si scrive spesso che si tratta di eroi nichilisti, un presupposto essenziale per opporsi alla legge da un lato, per sopravvivere con successo alle varie epoche sociali dall’altro. Ma di fatti, tutti rispondono a un codice etico che ha subito solo lievissime trasformazioni nel corso degli oltre cento anni di storia del cinema giapponese. Se da un lato è vero che la loro partitura etica si basa da sempre sul binario giri- ninjo (cioè le obbligazioni rispetto al prossimo, legate a contesti particolari, e il sentimento umano universale esteso a tutte le tipologie di relazione[2]), bisogna tener conto anche di un sottotesto morale che viene magnificato in particolare nel corso degli anni cinquanta nei cosiddetti ninkyo eiga (film cavallereschi), per essere poi sovvertito nel corso degli anni settanta nel filone definito jitsuroku yakuza eiga. Nel primo caso, chanbara resta il riferimento principale con determinate griglie tematiche di base: si pensi tra gli altri ai film matatabi mono 股旅物(cui appartiente Zato Ichi) in cui si narrano le gesta di yakuza erranti che si fermano lungo il loro cammino per giocare d’azzardo, dove vengono poi ospitati da qualcuno e sono quindi costretti a ricambiare il favore uccidendo un dato antagonista.

Nonostante l’apparente rigidità di tali strutture, per autori del calibro di Kato Tai (1916-1985) la griglia serve proprio per far uscire dalle righe i suoi personaggi, conferendo loro un peculiare disequilibrio tra giri e ninjo che ne rende altamente drammatici i conflitti. Tra i maestri indiscussi dei ninkyo eiga, questo regista aveva aggiunto uno stile personale con cui spesso riusciva a infrangere le convenzioni del genere — tra le altre novità, l’eliminazione del pesante uso di make-up per gli attori, peculiarità estetica di eredità teatrale. I suoi personaggi dalla forte caratterizzazione veicolavano un codice di onore di vecchio stampo, uno strumento per il regista utile a mettere in scena la rete di conflitti generata da pulsioni psicologiche piuttosto che da guerre di potere. Nel suo cinema l’eroe acquista anche fattezze muliebri: celebre l’interpretazione dell’attrice Fuji Junko nel ruolo di Oryu nella trilogia Hibotan bakuto (1969-1971), una delle punte più alte della filmografia di Kato. Attraverso il frequente utilizzo del piano-sequenza — inizialmente adottato per ovviare a una scaletta di lavoro intensissima — in combinazione con un angolo di ripresa effettuato prevalentemente dal basso, la sua macchina da presa traccia un flusso ininterrotto di sviluppi che seguono un crescendo drammatico altamente coinvolgente per il pubblico.

Nella realizzazione dei suoi matatabi mono in particolare, KatØ esemplifica attraverso il tema del viaggio il percorso catartico che permette ai suoi personaggi una presa di coscienza del proprio valore come uomini; tra i tanti titoli in cui il tema dell’”orgoglio maschile” diventa determinante, basti citare lo sperimentale Mabuta no haha (Amore per una madre, 1962), o il più astratto Sanada fuunroku (Cronaca del clan Sanada, 1963, nel cui tema si è letta anche la metafora della recente sconfitta nel movimento studentesco contro il rinnovo del Trattato di sicurezza Nippo-americano), e soprattutto il più celebre Meiji kyokakuden - Sandaime shumei (La leggenda dei cavalieri dell’era Meiji – La successione di un capo della terza generazione[3], 1965).

Per Misumi Kenji (1921-1975), regista molto attivo nel genere ninkyo in questi stessi anni, la ricercatezza quasi pittorica delle inquadrature mette in scena i personaggi a una distanza tale da percepirne con discrezione le emozioni. Un abbondante utilizzo degli elementi naturali in grado di evocare i sentimenti permette di suggerire il forte contrasto tra etica guerriera e umanesimo. L’interprete chiamato spesso a dar corpo a questi eroi è l’attore Ichikawa Raizo [4] (1931-1969), che ricorre alla violenza con fredda ed elegante determinazione, un distacco dettato dalla sua natura fondamentalmente pregna di sentimento che lo porta ad avversare le ingiustizie. Si pensi, tra i tanti titoli, al tema di Mushuku mono (Il senza dimora, 1964), in cui il giovane yakuza protagonista, nel corso della ricerca dell’assassino di suo padre, scopre che il genitore non solo è vivo, ma è anche il leader di un gruppo criminale che sfrutta gli abitanti di un villaggio (storia in cui è si è letta la relazione con l’Edipo re di Pierpaolo Pasolini, 1967). La rappresentazione delle scene di lotta avviene attraverso la stilizzazione e la rarefazione gestuale, offrendo momenti altamente astratti e coreografici.

E’ proprio Misumi Kenji il regista che ha avviato la celebre serie dedicata a Zato Ichi a cui ci si è riferiti nelle scorse pagine. A partire dal primo episodio del 1962, Zato Ichi monogatari (La storia di Zato Ichi[5]), le gesta di quest’eroe svelano un mondo oscuro in cui i valori morali sopravvivono con drammatica sporadicità, mondo descritto con un soffuso lirismo. Zato Ichi non è tanto di un paladino della “giustizia” etica come in molti altri film dello stesso periodo, ma piuttosto, come suggerito da Max Tessier:

L’intérêt de Zatoichi, c’est qu’il n’est pas un héros totalement “positif”, mais a ses faiblesses et ses défauts très humains. Ainsi ne défend-il pas “la société”, mais seulement les gens qui lui plaisent, qui témoignent d’une sincérité qu’ont perdu les hommes du pouvoir. Nul doute qu’il y ait une ceratine démagogie chez le personnage, mais on peut la trouver de bon aloi. Inutile de dir que le grand atout de la série est aussi la création de duels spectaculaires, réglés comme des ballets (qui doivent beaucoup à la stylisation ancienne du Kabuki), au cours desquels Zatoichi supprime ses adversaires en les effleurant seulement de la pointe du sabre.[6]

Negli stessi anni in cui il genere ninkyo riscuoteva un grande successo di pubblico (il 1958 è l’anno di maggiore affluenza nelle sale in tutta la storia del cinema giapponese), altri generi si affacciano sulla scena produttiva. Tra questi, in seguito alla fortuna – seppure dalla durata effimera – dei film definiti taiyozoku eiga (lett. film sulla truppa del sole[7]), presso la casa di produzione Nikkatsu si opta per un nuovo genere presto definito “Nikkatsu Akushon” (Nikkatsu Action). Tra le caratteristiche principali di questo nuovo genere, c’era la ripresa di alcuni stilemi del cinema noir americano degli anni cinquanta, tra cui gli ambienti fumosi e intrisi di note jazz, la virile relazione tra i membri delle gang, gli sguardi obliqui e le donne dark, e gli esterni girati solo in pieno centro urbano. Nel corso degli anni sessanta tali stilemi subirono graduali trasformazioni, sempre più adattati a un romanticismo di stampo nipponico, più nostalgico e meno virile rispetto alla prima produzione. La caratterizzazione dei personaggi assume maggiore profondità e viene sempre più adattata ad alcuni interpreti che, come sempre accade nello star-system, presto vengono identificati a tutto tondo con i gli uomini che rappresentano[8].

Tra i registi che più di altri “personalizzano” il genere, rendendolo peculiare e avanguardistico rispetto al suo prototipo statunitense, Suzuki Seijun(1923) è di sicuro uno dei più celebri e amati. Attivo alla Nikkatsu dal 1956, in undici anni realizza per la major ben quaranta titoli, di cui i primi non distanti dagli altri prodotti della casa. Gradualmente, però, il regista definisce un proprio peculiare stile che trasforma l’action in parodia e farsa, ricorrendo spesso a uno studio policromatico con cui la violenza viene rarefatta e resa artificiale. Il codice cavalleresco viene così “deturpato” e reso in pantomimiche dissertazioni sulla forma e sul movimento, la violenza spettacolarizzata, resa improbabile. Per il regista più che per altri autori, sesso e violenza sono due linguaggi con cui rappresentare gli istinti umani liberi da condizionamenti culturali, grazie ai quali è possibile spiegare anche molte aberrazioni storiche. La sua posizione autoriale viene resa al meglio da quanto da lui stesso dichiarato nel corso di un’intervista:

Io non capisco bene cosa significhi “esprimersi”. Se esprimersi significa, leggendo una sceneggiatura, pensare dall’inizio «Io farò così e così», allora mi esprimo. Non ho mai pensato di voler manifestare me stesso chiaramente. Più che esprimermi, faccio a modo mio. Quello che viene fuori, è il risultato di aver fatto a modo mio, non di avere «espresso me stesso».

Allo stesso modo, quando si vede un film, alla fine basta che uno abbia capito di che cosa si trattava. Non ho mai voluto dare un particolare messaggio.[9]

Del rigore reso dal connubio giri e ninjØ resta ben poco, se non un’improbabile morale con un eccentrico utilizzo delle variazioni cromatiche, smantellando la rigida iconografia dei personaggi fino a renderli pop e kitsch, quindi improbabili. Personaggi che non si rivelano quasi mai veri eroi, che anzi non tentano quasi di simpatizzare con il pubblico, al punto che, con la realizzazione del film Koroshi no rakuin (La farfalla sul mirino, di cui ha anche girato una sorta di remake nel 2001 dal titolo Pistol Opera), la Nikkatsu ritiene ormai di doversi liberare di un autore così “scomodo” e lo licenzia[10].

Siamo nel 1967 e solo tre anni prima hanno avuto luogo le Olimpiadi di Tokyo, un evento che ha prodotto una decisiva spinta in avanti a livello economico e di immagine internazionale del Giappone. Le porte sono sempre più spalancate verso l’Occidente e molte delle sfortune del decennio precedente, sull’onda della ricostruzione, si è tentato di rimuoverle, soprattutto idealmente. Nella scena cinematografica e nel mondo dell’action in particolaresi è imposto un nome, destinato a rivoluzionare ulteriormente il genere. Si tratta del regista Fukasaku Kinji (1930-2003), attivo dietro la macchina da presa già a partire dal 1961. Per indicare il suo cinema, e in particolare le opere degli anni settanta, viene utilizzata la definizione jitsuroku yakuza eiga, cioè i “film come veri documenti” cui si è già fatto riferimento.

La sua mitologia gangsteristica, applicata prevalentemente ad ambienti contemporanei, svela il suo interesse per le ragioni storiche che determinano la criminalità[11]. I suoi anti-eroi, codardi, cinici e aspri, svelano la propria origini di orfani del dopoguerra, cresciuti in quel disagio della ricostruzione che si è tentato di mettere in ombra in occasione delle Olimpiadi. La loro confusione morale equivale a quella dell’intero paese, e alla corruzione del mondo della malavita si associa a quella delle forze dell’ordine e della politica. Molti dei suoi personaggi sono frutto del disagio del dopoguerra, e la loro etica, che poco conserva degli antichi ideali di onore e sentimento, traduce in gran parte quella del paese, ancora in stato di scompiglio economico nonostante l’apparente crescita.

I due titoli più celebri della sua filmografia di questi anni, Jingi naki tatakai (Lotta senza codice d’onore , 1973) e Jingi no hakaba (La tomba dell’onore, 1975) sono due punti di riferimento essenziali per questo tipo di cinema. Nel primo caso ci troviamo nella prefettura di Hiroshima dell’immediato dopoguerra, dove un ex soldato ora al saldo di una gang yakuza viene tradito e imprigionato e, una volta tornato in libertà, scaglia la sua rabbia contro lo stesso clan malavitoso. Anche il protagonista del secondo titolo è reduce di un periodo di prigionia e ha imparato ad affrontare la vita senza più onore, al punto da violentare la donna che gli offre ospitalità. In più, termina antieroicamente la sua vita con il suicidio dopo essere precipitato nel gorgo della droga. Il tema comune della prigionia serve a sottolineare come per questi uomini vi sia stato un forte disincanto, un segno che li lega con forza alle avversità quotidiane vissute dallo stesso pubblico.

Per prestare con immediatezza il sistema di vita dei suoi personaggi, Fukasaku utilizza uno stile realistico e peculiare: l’asprezza dei personaggi viene esaltata dall’inserimento di vari estratti da documentari e reportage giornalistici. Le scene in esterni mostrano strade sporche e desolate, si soffermano di rado su momenti che non siano di alta tensione. La macchina da presa è nervosa e oscillante, cerca dettagli e crea un’alta tensione emotiva.

Le istanze presentate dal cinema di Fukasaku sono destinate a scivolare nel positivismo dei più colorati anni ottanta, quando il genere action subisce un notevole declino. Pochi titoli in questo decennio sono degni di nota, si tende piuttosto a riproporre trame e situazioni già note dei decenni precedenti. Tra i pochi esempi riusciti del periodo, il film Ryuji (id., 1983) del regista Kawashima Toru mette in evidenza come l’apparente happy life degli anni ottanta abbia in realtà offuscato molti valori morali su cui fare affidamento, in particolare all’interno del mondo gangsteristico. L’action non serve qui per sottolineare alcun eroismo, ma piuttosto per marcare la vulnerabilità degli esseri umani e l’iniquità della violenza: i momenti di lotta vengono dunque resi in ritmi quasi di danza e le immagini spesso virate in blu, una monocromia che fonde i corpi nell’asfalto e nel cemento delle metropoli, annullandoli.

Questo film rappresenta in un certo senso un precedente illustre rispetto agli yakuza eiga che di lì a poco avrebbe realizzato Kitano Takeshi e a cui si è già fatto riferimento. Il risveglio del genere yakuza nel corso degli anni novanta vede tra i protagonisti, oltre a Kitano, alcuni giovani autori che approntano i primi passi nel mondo del cinema proprio attraverso racconti inediti di violenza urbana. Nel corso dell’ultimo decennio, le storie imperniate su lotte tra gang si sono arricchite di una novità determinante, cioè l’aggiunta corposa di nuove entità gangsteristiche provenienti dai vicini paesi asiatici, in particolare Cina e Corea. I film che descrivono questi ambienti, e in particolare quelli del regista Miike Takashi, evidenziano una definitiva perdita di valori e una spietatezza senza precedenti. Vanificano del tutto l’idea dell’eroe che si schiera dalla parte del debole ed esaltano piuttosto la follia della violenza, sfrenata e senza redini etiche. Una grande fetta della produzione home video punta su questi film, destinati a un consumo fugace nelle strette mura domestiche da parte di un pubblico prevalentemente giovane e maschile che si è già alimentato dello stesso sconnesso mondo di violenza attraverso la lettura di innumerevoli manga.

[2] Con la loro giusta calibratura si ottiene l’onore e la morale (jingi), termine che, come vedremo, acquista una particolare valenza nel corso degli anni settanta.

[3] KyØkaku è il termine generico usato per indicare gli yakuza di epoca Edo (1600-1868). Questo film viene ritenuto il punto più alto della prima stagione di film dedicati agli yakuza.

[4] Morto precocemente a soli 38 anni nel 1969, la sua immagine si lega con forza a questa tipologia di eroe “fragile”.

[5] E’ il primo di una serie di 26 film realizzati tra il 1962 e il 1989, oltre che il soggetto di una popolarissima serie televisiva. Tutti sono interpretati dall’attore Katsu Shintaro che ha fondato anche una sua casa di produzione, la Katsu Production, con cui ha coprodotto gli ultimi episodi, e che ne è diventato anche regista dal 1968. Allo stesso personaggio si è ispirato Kitano Takeshi con Zatoichi (id., Premio della Giuria alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia), che ne ha maggiormente delineato la coreografica gestualità attraverso una divertente partitura musicale.

[6] Max Tessier, Le Cinéma Japonais au Présent, Parigi, Lherminier, 1984, p. 34.

[7] Opere prodotte sul finire degli anni cinquanta, basate sui romanzi dello scrittore Ishihara Shintaro e inneggianti a una gioventù per la quale conta solo un violento e sessuale carpe diem.

[8] Ishihara Yujiro, fratello del celebre scrittore Shintaro, nato sullo schermo come interprete ideale della truppa del sole, diventa presto uno dei volti più celebri, insieme a Watari Tetsuya, Kobayashi Akira e Shishido Jo, per non citarne che alcuni.

[9] “Suzuki Seijun intervistato da Hasumi Shigehiko e Ueno Koshi”, Racconti crudeli di gioventù – Nuovo cinema giapponese degli anni 60, a cura di Marco Müller e Dario Tomasi, Torino, E.D.T. Edizioni, 1990, p. 157

[10] Il regista intenta quindi una causa contro la major per riottenere il proprio posto, ma gli è possibile tornare alla macchina da presa solo nel 1977.

[11] Tra i vari titoli, per esempio, Gunki hatameku moto ni (Sotto la bandiera del Sole Nascente) è da molti ritenuto uno dei migliori film anti-bellici mai realizzati in Giappone.

Estratto da "ACTION: COORDINATE MORALI E PRODUTTIVE NEL CINEMA DI GENERE GIAPPONESE

" in Atti Aistugia 2007

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