Mizoguchi Kenji e le sfumature muliebri
MIZOGUCHI KENJI: SFUMATURE MULIEBRI
Il cinema di Mizoguchi Kenji ha sublimato per decenni un immaginario femmineo etereo, criptico e tragico, ed è grazie a queste immagini che l’occidente ha derivato a lungo l’idea del mondo della donna giapponese. La dicotomia tra eroina che incarna la tradizione e quella che si proietta nella modernità, ha permesso al regista di mettere in scena dei tranche de vie che si imprimono nell’esperienza dello spettatore con profondo coinvolgimento emotivo.
Nella lunga carriera del regista, che pure ha toccato quasi tutti i generi filmici a lui contemporanei, sono frequenti, in filigrana, gli accenni autobiografici e i riferimenti alle donne che hanno attraversato la sua vita: in particolare la sorella, da lui molto amata e tuttavia ceduta in giovane età dall’austero padre[1] a una casa da tè; e ancora una sua amante che, in preda alla gelosia, l’aveva ferito alla schiena con un rasoio. Da entrambe, il regista eredita l’idea di una donna pronta a sacrificarsi per il volere stolto di un uomo o della famiglia da un lato, e dall’altro quella incapace di reggere le redini della passione, che si lascia quindi trasportare da impeti violenti pur di affermare il proprio desiderio.
Delle varie fasce sociali descritte nel suo cinema, come vedremo, Mizoguchi tende poi a preferire le donne più sfortunate, quelle appartenenti ai livelli più infelici della società o che comunque vi si avvicinano. Da qui la scelta predominante di tre figure liminali: l’attrice, la moga[2] e la prostituta, eroine che attraversano una parziale evoluzione nel corso della carriera quarantennale.
Uno dei primi film che è importante ricordare è Il mormorio primaverile di una bambola di carta (Kaminingyo haru no sasayaki), film ritenuto importante dallo stesso Mizoguchi tra i propri primi titoli. Grazie a una narrazione dal taglio lirico e a un montaggio fresco, il regista si cala direttamente nella realtà delle cose distanziandosi dai personaggi (sono infatti quasi assenti i primi piani). Lo spettatore resta così a distanza da questo primo abbozzo di mondo di prostitute, senza scivolare in compassionevoli simpatie.
Già in questo periodo, Mizoguchi ha cominciato a selezionare parte di quelle che si dimostreranno le interpreti più sensibili e congeniali al suo cinema, tra le quali Yamada Isuzu e Tanaka Kinuyo. Sono attrici che riescono a dar voce e dignità a personaggi destinati alla sconfitta, seppure forti e desiderosi di ribaltare la loro triste situazione. Esempi più evidenti di queste tipologie sono quelli delle protagoniste dei suoi film di tendenza (keiko eiga), attinti dalla piccola borghesia o dal mondo delle geisha, cioè La marcia su Tokyo (Tokyo koshinkyoku) e Sinfonia metropolitana (Tokai kokyogaku), entrambi del 1929. Nel primo film, contrapponeva per esempio due famiglie di Tokyo di diversa estrazione sociale, una proletaria e una borghese, sulla base di una combattuta storia d’amore tra due giovani ragazzi, racconto in cui emerge in particolare il personaggio femminile della giovane geisha Orie. Con maggiore incisività, il regista tratteggia la protagonista di Il filo bianco della cascata (Taki no shiraito, 1933), ma la tragica concatenazione di eventi di cui è vittima la protagonista, in qualche modo, non concedeva nulla al di fuori del destino. Il film narra la storia d’amore tra una giovane artista che si esibisce in giochi acquatici e un uomo che lei mantiene agli studi di giurisprudenza, e il coronamento dei suoi sforzi è comunque quello di incontrare il suo uomo, ormai in carriera, nel corso del processo che la condanna per omicidio. Il limite della loro relazione è già implicito, visto che a una donna di spettacolo, all’epoca, non era concesso di congiungersi a un uomo di rango superiore; ma piuttosto che costituire la trama di un melodramma, Mizoguchi svolge il racconto con relativa enfasi, quasi fosse solo uno dei tanti momenti tra gli infiniti esempi dell’esistenza.
Ma è soprattutto con la stagione realistica di Mizoguchi, inaugurata da due film del ’36, Elegia di Osaka (Naniwa hika) e Le sorelle di Gion (Gion no shimai[3]), che si mette a fuoco la rosa di donne divenute celebri nella sua intera opera. In entrambe gli esempi si mercifica il corpo della donna, le si conferisce un preciso valore economico sulla banda libidinale. Il realismo di Mizoguchi consiste soprattutto nel definire con sapiente distacco emotivo e morale la calibrazione di tale valore economico. La società descritta è in entrambi i casi quella tipicamente maschile, almeno per quanto concerne la piramide di valori che la regolano al suo interno. Le protagoniste dei due film cercano non tanto di reagire a ciò che viene loro imposto, quanto piuttosto di sopravvivere alle conseguenze del loro agire. Nel caso di Elegia di Osaka, la protagonista è la tipica moga: dopo essersi sacrificata per aiutare finanziariamente il padre e il fratello, al punto di dover rinunciare all’uomo che ama ed essere persino accusata di furto, viene rifiutata dalla sua stessa famiglia e allontanata come un “cane randagio”. Diventare una moga, nel suo caso, è la risultante di una metamorfosi più che di una scelta, un mutamento necessario per rinunciare agli antichi valori ai quali aspirava. Una sceneggiatura dal sapore polemico, con frasi asciutte che parlano di una realtà che si fa fatica a pronunciare, mette in scena il degrado della donna come segno della sventura della modernizzazione a cui si affida in questi anni in Giappone, quindi riassume il fallimento del modello di emancipazione di stampo occidentale.
Nel film Le sorelle di Gion, non solo subisce un fallimento la giovane sorella, segno anch’ella delle dinamiche moderniste e progressiste, convinta che una geisha debba saper sfruttare gli uomini, non esserne un mero oggetto di piacere, ma incontra il dolore anche la maggiore, che pure è custode e interprete dei valori del passato. Le donne sono inoltre un simbolo dei due mondi vissuti dal regista, quello del Kansai (la regione di Kyoto e Osaka), culla dell’antica civiltà, e quello di Tokyo, epigrafe dell’occidentalizzazione e cuore dell’evoluzione culturale.
Le condizioni miserevoli delle tre donne, per quanto con modalità differenti, godono dello stesso trattamento della macchina da presa di Mizoguchi: con il rifiuto per i primi piani, il montaggio parco e l’inserimento di tutti gli elementi nell’inquadratura, la centralità “melodrammatica” di queste donne viene superata da un crudo quadro d’insieme, ridimensionate come una qualsiasi componente del quotidiano. L’approccio dell’autore alle eroine non solo non è compassionevole, ma a tratti è impietosamente “sadico”, quasi voglia cinicamente puntualizzare le responsabilità della donna nelle proprie sventure, l’epilogo come la risultante di una serie di scelte sbagliate più che di un fato infelice.
A cavallo degli anni di massima impennata militaristica, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, Mizoguchi dirige alcuni film che si dissociano dall’onda politica da un lato (i geido mono) e vi aderiscono in parte (Chushingura dell’era Genroku - Genroku Chushingura, in due parti, 1941-1942). Il geido mono è un genere costituito dall’insieme di opere in cui rientrano tutte le biografie di noti personaggi dello spettacolo e che sono ambientate in periodo Meiji (1868-1912). In quest’ambito Mizoguchi realizza la trilogia Racconto dei tardi crisantemi (Zangiku monogatari, 1939), La donna di Osaka (Naniwa onna, 1940) e La vita di un attore (Geido ichidai otoko, 1941), dei quali ci resta solo il primo. Racconto dei tardi crisantemi è la storia dell’edificazione artistica di un popolare attore di kabuki, la cui ascesa verso la fama coincide con il declino tragico della sua relazione sentimentale con una cameriera, l’unica ad avergli onestamente fatto presente la sua mediocrità esortandolo a migliorare, e che pure si farà da parte nella sua vita. La microsocietà costituita dal gruppo teatrale è qui metafora di un più ampio sistema feudale e gerarchizzato, al cui interno vengono assegnate le mansioni, sottomessi i sentimenti, regolata la stratificazione dei ruoli. Come in altri esempi dell’opera mizoguchiana, l’uomo è debole e la donna disposta al sacrificio.
Il progetto di Chushingura dell’era Genroku era stato approvato dal governo che vi auspicava una virile ricostruzione del passato e un inno all’etica guerriera. La trama base dei vari Chushingura, il maggiore oggetto di remake della storia del cinema giapponese, restava praticamente sempre immutata: nei primissimi anni del diciottesimo secolo, quarantasette ronin attendono due anni prima di uccidere il consigliere Kira, reo di aver offeso il loro signore Asano che era stato poi costretto al suicidio. Dopo averlo ucciso, sono a loro volta pronti a togliersi la vita uno dopo l’altro. Anche nel caso di questo racconto “virile” Mizoguchi può descrivere la passione femminile, utilizzando la figura di Omino, fidanzata del più giovane tra i ronin, che tenta di comprendere se la scelta della vendetta è solo un espediente del giovane per liberarsi di lei o se la ama davvero. Quando l’affetto dell’uomo le viene confermato e si rende conto di dover comunque rinunciare a lui, la sua coerenza e determinazione si spingono al punto di indurla a un orgoglioso suicidio, non disperato o tragico, ma lucidamente necessario.
In entrambe le situazioni, protagonisti sono degli uomini e i loro ambienti più o meno virili (quello del kabuki, come abbiamo visto parafrasi della società feudale nel proprio microcosmo, e quello militare evocato dalla storia dei quarantasette ronin), ma in entrambi i casi scorrono immagini femminili liriche e sublimi, seppure spennellate in modi differenti. Inoltre, nei due film, oltre alle tecniche a cui accennato prima, si aggiunge un utilizzo stilisticamente intenso del piano sequenza, grazie al quale il regista “soffoca” le sue eroine in ampi affreschi, in cui si stempera del tutto la loro valenza individuale.
Nell’immediato dopoguerra, tra il 1946 e il 1949, Mizoguchi gira quattro opere secondo un opinabile punto di vista “femminista”: La vittoria delle donne (Josei no shori, 1946), L’amore dell’attrice Sumako (Joyu Sumako no koi, 1947), Le donne della notte (Yoru no onnatachi, 1948), Il mio amore brucia (Waga koi wa moenu, 1949). Attraverso le vicende, rispettivamente, di un’avvocatessa, dell’attrice Matsui Sumako, della prostituta e della donna impegnata politicamente di queste quattro pellicole, Mizoguchi mette in scena un mondo femminile in cui le protagoniste tentano di affermarsi nonostante le violenze fisiche e psicologiche, ma restano destinate a una cupa solitudine. In tutti questi film l’interprete principale è Tanaka Kinuyo[4], diventata ormai una sorta di icona per il regista, l’incarnazione perfetta del suo ideale femminile.
Ma il film che vede affermare con maggiore disinvoltura e leggerezza il femmineo mizoguchiano di questo periodo è in realtà Cinque donne intorno a Utamaro (Utamaro o meguru gonin no onna, 1947). Intento dichiarato del regista (nonché escamotage per evitare la censura da parte delle forze di occupazione americane, affannosamente impegnate a cancellare ogni traccia feudale) era di mostrare come Utamaro fosse stato un uomo del popolo e un artista liberale, che viveva quindi tra la gente comune per ritrarne la bellezza e la passione. Ma intorno alla figura del pittore acquistano spessore i caratteri femminili, descritti come coloro che meno esitano a dichiarare il proprio desiderio di provare piacere. Il motivo della pittura, del resto, permette al regista di mettere in scena nel modo più esplicito il suo universo erotico, dirottando gli sguardi dei personaggi e degli spettatori in direzione dell’oggetto del desiderio, di una sessualità eterea.
Tra il 1950 e il 1951 Mizoguchi realizzò un’altra trilogia ideale sul tema della sconfitta sentimentale di tragiche eroine, in questo caso di tre mogli. Il ritratto della signora Yuki (Yuki fujin ezu, 1950), La signora Oyu (Oyusama, 1951) e La signora di Musashino (Musashino fujin, 1951), affrontano con maggiore maturità l’analisi psicologica dei personaggi. Seppure appartenenti alla borghesia e distanti, quindi, dai bassifondi di altri titoli del regista, le protagoniste sono tre donne ancorate al passato e ai valori della tradizione, ma catapultate con violenza in un presente in incessante progresso, in cui si ritrovano comunque sole. L’insistenza sulla componente sessuale delle loro relazioni è un ulteriore omaggio del regista all’erotismo femminile. Ancora una volta, Mizoguchi amplifica gli sforzi che le sue eroine compiono per lottare contro il destino, ed è evidente come impietosamente non approvi la loro rassegnazione nella sconfitta sentimentale.
Queste tre figure sono un preludio ideale per accedere al mondo atipico del personaggio più celebre dell’opera di Mizoguchi, la protagonista di Vita di Oharu, donna galante (Saikaku ichidai onna, 1952). Ma in questo caso più che mai, Mizoguchi rivela il suo approccio “sadico” alla donna: ogni singola tragedia in cui Oharu incorre è una lacerazione più profonda della precedente; a un’apparente conquista si lega una frattura più dolorosa; alla corruzione della vita si lega quella del corpo, deturpato dall’età; tutto ciò che questa donna ama, le viene sottratto con crudele ricorrenza. L’ambiente in cui la donna si muove (quasi uno scivolare, con gesti leggiadri, in una sorta di danza pacata) è nettamente claustrofobico, non solo nelle austere architetture, ma anche nelle scene in cui prorompe una natura selvaggia, senza limiti, che pare inghiottirla e disperderla (in particolare nella coltre di nebbia che segna la sua perdita in vecchiaia). Mai come in questo caso ridotta al solo corpo mercificato, la donna di Mizoguchi sconta la sua rassegnazione, ed è evidente quanto il regista non simpatizzi per lei.
Vita di Oharu ha aperto la stagione dei classici mizoguchiani. Tutti i film realizzati da questo momento sono divenuti importanti punti di riferimento per il cinema internazionale, ampiamente conosciuti in tutti il mondo. Intorno all’immagine della donna, molti dei temi finora esplorati tendono a ripetersi in varianti sfumate dello stesso tipo di tragedia e tanto è stato scritto in merito. Basterà accennare al remake (in chiave ancora più pessimistica) di Le sorelle di Gion effettuato con La musica di Gion (Gion bayashi, 1953), al contrasto tra le donne di due generazioni (in questo caso madre e figlia) di Una donna di cui si parla (Uwasa no onna, 1954), al suicidio di Anju per permettere la fuga del fratello in L’intendente Sansho (Sansho dayu, 1954), alla morte necessaria di Ozan, protagonista di Gli amanti crocifissi (Chikamatsu monogatari, 1954), per essere finalmente libera di amare, al sacrificio per la politica e per l’arte del suo uomo della protagonista di L’imperatrice Yang Kwei-fei (Yokihi, 1955). Ma su due titoli servirà soffermarsi per trovare delle tipologie muliebri finora inesplorate dal regista[5]: I racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953) e l’ultimo film realizzato prima della morte, La strada della vergogna (Akasen chitai).
Il primo mette in scena il destino di tre donne apparentemente molto distanti tra loro, ma in realtà composte in modo da formare un’unica donna, in qualche modo “la donna”. Wakasa, la demone, è una femme fatale dalla sessualità intensa, seppure personaggio criptico e complesso; Miyagi, la moglie che nel finale torna per una notte dalla morte, è una madre coraggiosa e amorevole; Ohama, la moglie del fratello violentata dai soldati e destinata alla prostituzione (da cui tuttavia si sottrae) è la donna che sopporta il dolore senza disperdere la sua rabbia, con una precisa volontà di riscatto. Nei confronti di questa triplice sfaccettatura muliebre, il contrasto tra sensualità e maternità, giocato in parallelo con un utilizzo particolare della carnalità (corpi che si dissolvono o che vengono espropriati con la violenza, comunque rarefatti e quasi impalpabili in immagini pittoriche di alto effetto), rendono finalmente dignità alle sue eroine e le elevano a simbolo di purezza.
L’ultimo film del maestro, La strada della vergogna (Akasen chitai, 1956, il cui titolo indica il quartiere in cui si prostituiscono le protagoniste), interseca una serie di situazioni legate a differenti personaggi. Delle varie donne che si succedono riempiendo quasi parossisticamente le inquadrature di corpi, ciascuna nasconde una differente tragedia (un marito malato, un figlio da mantenere, e così via), ma ognuna cerca di sottrarsi a tale destino. Più che nelle opere precedenti, qui Mizoguchi sembra soffermarsi con maggiore sensibilità sulla psicologia dei personaggi: ne esplora i sentimenti senza mai sfiorare l’approccio voyeuristico, quasi con pudore; le caratterizza a tutto tondo, pur non trascurando quanto c’è ormai di cinico in loro; un brutale realismo l’aiuta a evitare le cadute melodrammatiche, a rendere piuttosto con asprezza lo strappo definitivo tra tradizione e modernità. A distanza di molti anni, Mizoguchi sembra abbia riesplorato l’ambiente della sua giovinezza, quello in un certo senso legato al mondo della sorella, dimostrando una simpatia per la donna e per la sua condizione che aveva di rado rivelato nelle opere precedenti. Non tenta mai, neanche nel caso di quest’ultimo film, di denunciare il clima di vessazioni di cui le donne sono vittime, ma in qualche modo dimostra qui di accettare con loro il peso di una tradizione.
[1] Pare che il giovane Kenji detestasse già da allora l’immagine forte e autoritaria del padre di cui si riscoprono spesso i tratti violenti, in contrasto con la sublimazione delle figure femminili.
[2] Moga è la contrazione dell’inglese “modern girl”, termine con cui si indicavano in questo periodo le donne che si abbigliavano e seguivano modelli comportamentali di tipo occidentale, un termine che trasmette anche una connotazione cinica di frivolezza e dissipazione.
[3] Il termine shimai, che significa “sorelle”, è in realtà un errore di lettura purtroppo diffuso, al punto di essere l’unico noto in occidente. Il titolo originale è Gion no kyodai, laddove kyodai significa “fratelli”.
[4] L’attrice è stata anche la prima donna regista della storia del cinema giapponese, ma la sua carriera in quest’ambito è stata avversata proprio da Mizoguchi.
[5] In realtà, è inedito perché completamente negativo anche il personaggio femminile di Nuova storia del clan Taira (Shin Heike monogatari, 1955), cioè la madre del protagonista allontanata dall’imperatore per la sua dubbia dirittura morale, donna del tutto disinteressata al bene della propria famiglia e al mondo d’onore samuraico.
Estratto da "Bellezza e tristezza - Il cinema di Mizoguchi Kenji", a cura di D. Tomasi, Il Castoro, 2009
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