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Naruse Mikio

NARUSE MIKIO

IN VIAGGIO NELL’ESISTENZA

Spennellature lievi e morbide, un certo pudore nell’approccio drammaturgico al dolore, passioni che scorrono sotto traccia e non riescono mai a creare più che increspature sulla superficie dell’esistenza, suggestioni del mondo reale con le sue normali lacerazioni, vaghe lacune dell’animo. Il cinema di Naruse Mikio si alimenta delle vicende di una rosa di personaggi che vive nel flusso di un destino comune senza mai riuscire a dirottarne il corso. Un’umanità che sembra debba percorrere un viaggio costante, reale o figurato che sia, per ricomporre i pezzi di un fragilissimo presente e risolverne almeno i conflitti più gravi. Le strategie di sopravvivenza proposte dal regista si potrebbero riassumere nella placida accettazione del corso dell’esistenza: qua e là si intravedono delle crepe di infelicità, senza per questo sfociare mai in tragedia. Nei suoi film i sentimenti sono spesso repressi o appena abbozzati, il quotidiano resta soffuso di un vago senso di serenità, se mai possibile, che nasce dalla staticità del destino stesso.

Non si può prescindere dall’esperienza personale di Naruse per definirne il cinema. Ragazzo triste e introverso, orfano, povero e destinato al lavoro già nel corso dell’adolescenza, aveva potuto ritagliare esigui spazi per dedicarsi alla sua passione per la letteratura, poi così pregnante nella sua carriera. Anche le prime esperienze cinematografiche, il suo lunghissimo tirocinio da attrezzista prima e aiuto regista poi presso la major Shochiku, avevano contribuito a limitarne l’autostima e a renderlo sempre più introverso e con atteggiamento passivo rispetto a quanto gli accadeva intorno. Eppure era sin dall’inizio evidente il suo dono autoriale, in particolare la sua peculiare sensibilità nel tratteggiare il popolo meno eroico, soprattutto le donne, attraverso lievi accenni lirici che ne esaltano lo spessore psicologico.

A differenza del contemporaneo Mizoguchi, le protagoniste del suo cinema, ugualmente vittime di un mondo maschile che le relega in situazioni di infelicità, sono in qualche modo meno drammatiche e deboli, hanno una consapevolezza precisa dell’impossibilità di mutare il corso degli eventi, e quindi affrontano con più forza le situazioni, consce dei limiti loro imposti e dell’inutilità di dare spessore ai sentimenti. Scorrono quindi sullo schermo i loro momenti di un quotidiano spesso “virato al nero”, ma descritto con rigore realistico, con lievi movimenti di macchina e un raffinato uso delle variazioni luminose per non alterare la semplicità dei quadri, ridotti del superfluo fino alla loro essenza e animati solo da un montaggio rapido che scandisce l’imperturbabile avanzare del tempo. In breve, nelle parole di Kurosawa: “Il metodo di lavoro di Naruse consiste in una sequenza di brevi inquadrature poste una di seguito all’altra, ma quando le guardi nell’insieme nel risultato finale, ti danno la sensazione di un’unica e lunga sequenza. (…) Questo flusso di brevi immagini che sembrano quiete e normali a primo sguardo, rivelano di essere come un profondo fiume con una superficie calma che cela una corrente sotterranea tumultuosa” (1).

Liberate da qualsiasi interferenza di scena, nonostante l’ambiente, con prevalenza di riprese in interni, partecipi con i personaggi in visioni d’insieme — si noti il peculiare ricorso ai primi piani, utilizzati in prevalenza per “rubare” emozioni improvvise dai volti — che aiutano anche a cogliere un fluido corso della vita, le sue donne lasciano intuire da ogni gesto gli elementi drammatici che d’abitudine soffocano. E’ evidente la profonda conoscenza del mondo femminile da parte dell’autore, che spesso ha legato il suo lavoro a quello di protagoniste della scena culturale a lui contemporanea. Un caso dei suoi primi ritratti muliebri, precursore di tanti altri, è quello della protagonista del film Yogoto no yume (Sogni di una notte, 1933), costretta a prostituirsi per mantenere il figlio e un marito fallito fino a optare per un facile suicidio: la donna rinuncia al proprio turbamento per animarsi di una forza necessaria, per tenere a galla un sistema in cui a lei non è dato di rassegnarsi, e nella descrizione di Naruse neanche la prostituzione lede la sua fondamentale dignità.

Narude dà voce in più occasioni ai personaggi femminili creati dalla contemporanea scrittrice Hayashi Fumiko (l’autrice di cui ha trasposto il maggior numero di romanzi, tra cui il celebre Ukigumo – Nubi fluttuanti, 1955). Anche la Hayashi, come lui, concentrava il proprio interesse sulla famiglia intesa come monade sociale, in particolare tra gli strati più umili degli abitanti dei centri urbani (2). Le sue donne, ribelli e testarde, già svincolate dai dettami della tradizione a causa degli improvvisi mutamenti che si accavallano negli anni fino al dopoguerra, tentano di attraversare la vita con uno spirito di indipendenza, ma vengono costrette da restrizioni sociali a ripiegare sui ruoli classici di moglie e madre. Solo attraverso un viaggio, una sorta di vagabondaggio (come dal titolo di un suo celebre romanzo, “Horoki” – Diario del mio vagabondaggio, che lo stesso Naruse adatta per il grande schermo), queste donne hanno modo di sperare in una possibile libertà, ma il loro movimento le conduce invece sempre più verso un inevitabile insuccesso.

Dunque, niente di drammatico, apparentemente, oltre all’esistenza in sé. Quasi un passaparola sotterraneo tra queste donne e gli spettatori che vi identificavano all’epoca la propria triste condizione. Da qui il motivo del successo, confermato dal pubblico negli anni e grazie al quale Naruse è riuscito a effettuare il suo primo “grande salto”, abbandonando la major che lo sottostimava e avviando la sua collaborazione con la piccola casa PCL, di cui diventò presto principale autore. Sono gli anni felici dell’uomo oltre che del regista: il successo dei film Otome gokoro sannin shimai (Tre sorelle dal cuore di serve, 1935) e Tsuma yo, bara no yo ni (Moglie, sii come una rosa, 1935) gli permettono di vivere una felice — seppure breve — esperienza sentimentale con l’attrice Chiba Sachiko, da cui ha anche un figlio. In particolare con il secondo titolo, inoltre, Naruse riesce a realizzare un’opera personale che in qualche modo anticipa il suo periodo migliore degli anni cinquanta, soprattutto nella grammatica filmica utilizzata e nel suo particolare lavoro “nell’ombra”, discreto e costituito da una ricca tessitura tecnica, con cui gli sguardi implementano il potere dei dialoghi offrendo particolare intensità alle scene. Il film raggiunge un successo imprevisto, al punto da guadagnare il prestigioso premio Kinema Junpo ed essere persino distribuito negli Stati Uniti, caso raro per l’epoca.

Il dopoguerra e il disagio diffuso che lo connota diventano terreno ideale per le opere di Naruse, attento a descrivere l’attualità in modo più analitico rispetto ad altri cineasti a lui contemporanei. Il grande popolo, soprattutto quello impiegatizio, offre con le sue piccole storie un ampio repertorio di atmosfere ben consone al suo cinema, prevalentemente senza epiloghi positivi. Con la macchina da presa sempre più agile nel cogliere le sfumature e i gesti apparentemente minori della situazioni, e soprattutto grazie all’uso parco di dialoghi a favore di movimenti e sguardi, il regista è tra quanti meglio ritraggono la condizione di una genia che tenta di ricollocare il senso della propria esistenza tra le macerie di una società fortemente violentata dalla guerra. La sua descrizione è a tratti umoristica, un elemento in più per avvertire il contrasto con la situazione di generale drammaticità. Mentre va perdendosi la tradizione, Naruse non vi dedica mai nostalgici omaggi, e allo stesso modo non è interessato che al presente in cui si muovono i suoi uomini e donne.

Anche nel suo caso, dal dopoguerra si ricomincia dalla famiglia: così come negli stessi anni Ozu ne descrive con sempre maggiore interesse l’intima struttura, Naruse vi attinge per rendere ancora più privata l’esperienza dei suoi personaggi e definire una sorta di felicità posticcia, non idealistica ma concreta, l’unica realizzabile. E’ il caso del film Meshi (Il pasto, 1951) in cui una crisi coniugale, piuttosto che produrre una lacerazione, induce i protagonisti a constatare che la stima provata reciprocamente sia già un motivo di quiete, anche se non di vera felicità, senza dover per forza ambire a sentimenti più importanti.

Va de sé che a Naruse interessi la donna che funge da perno all’interno della famiglia, soprattutto economicamente intesa — donna dotata di una forza tale da saper bilanciare la fondamentale fragilità degli uomini che da lei dipendono. Tuttavia, il regista non trascura per questo nessuna delle relazioni che regolano il microcosmo familiare, come avviene in Inazuma (Il lampo, 1952) in cui esplora il particolare legame tra quattro fratelli, figli di padri differenti, e la loro madre, o ancora nel rapporto tra i tre fratelli di Ani imoto (Fratello e sorella, 1953), tra coniugi in Fufu (Marito e moglie, 1953) e Tsuma (Moglie, 1953). Si allontana da questo tema solo quando si rivolge al mondo delle geisha, offrendo risultati di analogo lirismo: Bangiku (Tardi crisantemi, 1954) e Nagareru (Fluttuare, 1956) sono due esempi determinanti nella sua carriera per comprendere quanto fosse interessato alla condizione di queste donne. In ogni caso, le timide battaglie intraprese dai suoi personaggi hanno sempre una finalità reale, servono a soddisfare bisogni primari, per esempio per la sopravvivenza spicciola, piuttosto che essere ambizione idealistica di sentimenti “vagamente utili”.

Così come sguardi e lievi movimenti aiutano a stemperare le asperità esistenziali dei personaggi, anche la natura contribuisce a disperderne la centralità. Il riferimento a situazioni naturali nell’opera di Naruse è evidente già nella scelta di gran parte dei suoi titoli: Shuu (Pioggia improvvisa, 1956), Iwashigumo (Cirrocumuli, 1958), Midaregumo (Nubi sparpagliate, 1967), e non ultima l’opera più celebre del regista, Ukigumo (Nubi fluttuanti, 1955), in cui il grande disegno naturale smorza l’enfasi data alla morte della donna nel finale, narrata pacatamente, rendendola quasi uno dei tanti momenti di un divenire più ampio. E’ un po’ la caratteristica dell0intero cinema giapponese (e della cultura dell’arcipelago in generale) affidare alle metafore naturali i moti dell’anima, ma nell’opera di Naruse si avverte di più l’atmosfera di un autunno che placidamente spegne le luci, attenua le passioni, frena il bisogno di mutamento. Un quadro in linea con l’esperienza personale del regista, che infatti aveva un giorno dichiarato: “Da quando ero giovane, ho sempre pensato che il mondo in cui viviamo ci tradisca, e questo pensiero resta in me”.

I film di Naruse si distinguono anche per il loro “finale aperto”, una scelta in linea con la narrazione del quotidiano: l’autore non è interessato a determinare un punto di arrivo per il “viaggio” dei suoi personaggi, che al contrario sono intrappolati nel destino di dover perpetuare il sistema che ne limita la libertà e l’indipendenza (spesso rappresentato, si sa, dal matrimonio o dalla necessità di dover garantire il sostentamento ai figli).

Abbiamo visto come il futuro non abbia corpo e come invece si disperda, con il passato, in un divenire costante in cui non resta spazio per nostalgie o ambizioni. Ad aggravare l’esistenza dei personaggi contribuisce inoltre quell’invalicabile mancanza di comunicazione che si instaura tra coniugi o tra membri della stessa famiglia, che limita i rapporti alla rete di sguardi esplorati all’infinito nella chiusura claustrofobica delle abitazioni. Un’architettura di scena rigorosissima, essenziale, attraverso cui la casa diventa al tempo stesso luogo che rassicura e prigione senza uscita, i suoi oggetti punti di riferimento e motivo di sicurezza, lo scorrere di pareti il tracciato labirintico di tale esistenza. La macchina da presa si posiziona spesso ad altezza dei tatami per partecipare con il suo sguardo alla percezione dei gesti, rendendo estremamente intima la relazione con lo spettatore, spesso con un’intensità maggiore di quanto possano rendere i dialoghi.

Questo tipo di struttura che prevede la conoscenza della funzione quotidiana di ciascun oggetto posto in scena è ovviamente più ermetico per il pubblico occidentale, il che, insieme all’apparente ripetitività di temi e situazioni e all’obiettiva “caduta” di alcuni suoi film — dovuta prevalentemente alla sua passiva accettazione di qualsiasi progetto fosse proposto dalle major —, è stata una delle cause della scarsa diffusione dell’opera di Naruse all’estero. Fortunatamente, oggi il suo cinema viene giustamente rivalutato e il suo nome torna con diritto a far parte della rosa dei grandi del cinema giapponese, insieme a quelli già amati di Ozu e Mizoguchi.

  • Akira Kurosawa, “Something Like an Autobiography”, Vintage Books, New York 1985, p. 113.

  • Anche lei di estrazione umile come Naruse, poi destinata a una lunga serie di insuccessi sentimentali, ha connotato di tinte sempre più fosche le proprie opere attingendo direttamente dalla materia autobiografica.

Estratto da Cineforum 480, Anno 48 n. 10, Dicembre 2008

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