Addio all'arca (Terayama Shuji, 1981)
Saraba hakobune (Addio all'arca, 1981)
Ispirato a Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez[1], e il suo film-testamento, girato quando gia sapeva di avere le ore contate, e quindi con un fortissimo desiderio di rappresentare la propria morte e permettersi così una continuità di esistenza. E' per questo che i segni che vi sono contenuti, pur se ripresi dalle opere precedenti, vengono disposti a ornare un sentiero che conduce all'aldilà e viceversa, in un sistema di rappresentazione più ermetico che mai.
Prima di tutto spicca la delusione che ormai Terayama prova verso il tempo che gli viene sottratto, e che perciò rappresenta nella miriade di orologi che dispone nel film. Nell'ambito del piccolo villaggio, il potere del tempo e detenuto dallo honke[2], per cui tutti gli orologi a parte il suo vengono distrutti e seppelliti per paura di sovversioni anarchiche. Lo spostamento delle lancette determina infatti una rivoluzione anche dei cicli della natura, tra giorno e notte e nel succedersi stesso delle stagioni, e di conseguenza conferisce allo honke un potere economico all'interno del villaggio.
Il film descrive la storia di questa piccola società in un arco di tempo di cento anni, dal periodo Meiji al periodo Showa. E' in particolare la storia di una coppia che vive all'esterno del gruppo: lei proviene dallo honke e ha sposato un consanguineo, per cui il padre le ha imposto una cintura di castità (altro mezzo di repressione, come gli orologi) che vieta loro di avere rapporti sessuali e quindi un figlio come continuità della "loro" specie. Ciò diventa motivo di derisione da parte dell'intero villaggio, e in un momento di rabbia l'uomo finisce con l'uccidere l'erede dello honke durante una gara di galli (che li rappresentano specularmente) a una sagra. Poi, terrorizzato, tenta la fuga con la moglie, ma nonostante il lungo cammino della coppia in una profonda oscurità, una specie di percorso verso gli inferi descritto in bellissime immagini in bianco e nero, si ritroverà al punto di partenza. Questa scena e sineddoche dell'intera logica del film, per cui, come detto prima, esiste un sentiero che conduce all'altro mondo e vi ritorna circolarmente. E in quanto circolare, vita e morte vi si alternano come momenti identici nel destino umano, visti come due esperienze complementari e speculari, e quindi sovvertibili, cosa che Terayama auspica per se stesso.
Il percorso della coppia attuato in senso orizzontale corrisponde all'enorme fossa scavata nel villaggio tramite la quale gli abitanti comunicano con l'aldilà, per esempio inviandovi lettere.
Il ritorno della coppia alla capanna appartiene, quindi, già al percorso in "negativo" rispetto alla loro vita precedente. Il caos ha inizio sin da quando al protagonista appare il fantasma dell'uomo che ha ucciso, e questo e tutt'altro che funereo, ma addirittura immagine complementare dell'uomo stesso. Inoltre il protagonista comincia a perdere la memoria, tramite necessario con il passato, come abbiamo già visto. Scrive perciò il nome di ogni oggetto, e persino di se stesso, su dei fogli che attacca ovunque, e dal semplice nome passa poi alla loro rappresentabilità: la moglie non e solo “Sue”, ma anche “mia moglie”, e una scarpa è un “oggetto che si usa per camminare quando si esce di casa”. Le scene di questa sua ossessione vengono intercalate a intermittenza da quelle di un circo al risveglio al mattino, posto come simbolo del risveglio della sua follia, e segnano il distacco definitivo dei due dal gruppo. La ridefinizione della "parola" è gia di per sé un atto anarchico, che si esalta quando poi acquistano un orologio tutto loro.
La confusione del tempo in Saraba hakobune, a differenza dei film precedenti, più che essere un tentativo di ridefinire il passato, diventa una proiezione nel futuro[3], ed e legata all'immagine del ragazzino che, precipitato nella fossa del villaggio, ne esce adulto. Visto quindi come opposto al ritorno all'utero materno, e in più come salto nella diegesi temporale del film, questo personaggio cresciuto senza alcun condizionamento culturale sarà pura sessualità, puro istinto. Ma la sessualità come puro istinto è crudele, violenta, e quindi essa stessa morte, rappresentata qui da una ninfa nella foresta che attrae come una sirena gli uomini che poi muoiono al suo contatto.
Naturalmente non mancano gli esorcismi, come quello della donna liberata dal malefico dio-cane, e i sortilegi: negli innumerevoli shiisa[4] che appaiono, e in particolare nei wara ningyo che la protagonista inchioda all'albero o con cui un'altra donna simula la gravidanza. Sono anche questi strumenti con cui si offusca l'ordine logico delle scene, così da renderle più prossime alle sfere infernali.
Ma nella circolarità c'è anche un momento in cui dal caos si esce, e alla morte del protagonista la cintura di castità della moglie si slaccia, appaiono un'automobile, la prima linea telefonica e i primi orologi "personali" (da polso o da panciotto, che indicano il tempo esterno, in contrapposizione a quelli da parete con cui si segna il tempo della casa-gruppo sociale). Si conclude il ciclo dei cento anni, e il villaggio e ora in periodo Showa. Riappaiono tutti i personaggi ripresi in vesti moderne, ma tutti, quasi come in un contrappasso dantesco, rappresentano l'opposto di ciò che erano stati nella vita precedente. La coppia, lontanissima dal primitivo anarchismo, ha ora un figlio e gestisce un negozio di riso, la ninfa intoccabile è adesso una prostituta che attira con forza i clienti, eccetera. Solo la natura è stata violentata dal progresso, con il sorgere di palazzi e la creazione di strade, e un unico personaggio non è mutato, il vecchio fotografo, una volta cenciaiolo e venditore di orologi, che indossa gli stessi abiti di cento anni prima. Questo, con un'antica macchina fotografica, raccoglie tutti i personaggi apparsi nel film e fa loro una foto ricordo, ma al momento dello scatto li ritrasforma tutti nell'immagine di cento anni prima, persino negli abiti.
Se da un lato questo film rappresenta la speranza per Terayama di poter tornare alla vita dopo la morte, d'altra parte sembrerebbe quasi che gli sia servito per rivisitare i suoi film precedenti. Pur usando gli stessi oggetti e lo stesso "bestiario", Saraba hakobune non mostra tanto una finzione, quanto una definizione del sé, e lo si può quindi leggere in chiave autobiografica. Da questo punto di vista potrà sembrare contraddittorio che sia l'unico film non girato nella oscura Aomori, ma al contrario ambientato nella vivacissima Okinawa, che però per Terayama diventa in qualche modo Eden ideale per la nuova vita che lo aspetta.
[1] Era infatti intenzione di Terayama usare lo stesso titolo, cioe Hyakunen no kodoku, ma dovette rinunciarvi per problemi avuti con 1'agente di Garcia Marquez. Inoltre il disegno iniziale dell'opera era di un film di quattro ore, sul tipo di Novecento di Bertolucci, ma era gia troppo malato per potersi permettere un così lungo tempo di lavorazione, e vi apportò dei tagli drastici che ne hanno accentuato il carattere ermetico.
[2] Nell'antica struttura del villaggio giapponese, è la famiglia-capo, con un potere che all'origine era non solo economico, ma anche religioso e carismatico.
[3] Nelle parole della donna alla morte del marito: “Hyakunen tattara kaette oide (...) hyakunen tattara sono imi wakaru!” (Ritorna fra cent'anni ... e fra cent'anni ne capirai il significato!), la frase da cui piu traspare la promessa di "ritorno" di Terayama.
[4] Animali in pietra tipici di Okinawa, posti sui tetti delle case per scacciare i demoni.
Estratto da "FORMA DELL'IMMAGINE E IMMAGINE DELLA FORMA: ITINERARIO META-VISIVO NELL'OPERA DI TERAYAMA SHUJI" in Il Giappone, Volume XXXII, 1994,