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Ozu Yasujiro

Nell’ambito della commedia muove i primi passi anche uno dei registi destinati a rappresentare il cinema giapponese nel mondo, Ozu Yasujiro, che, come già e ancor più di Gosho Heinosuke, ne trae stimolo per la messa a punto di un universo tutto personale. A ricordare l’amore giovanile di Ozu per il cinema, si cita spesso l’aneddoto di quando disertò l’esame di ammissione alla Scuola Superiore Commerciale di Kobe per andare a vedere The Prisoner of Zenda di Ingram. Sono gli anni in cui divora decine e decine di film, per lo più americani ed europei, finché viene assunto alla Shochiku, dove trascorre alcuni anni di tirocinio prima di diventare regista. In questo periodo apprende l’uso della macchina da presa dall’operatore Sakai Hiroshi, soprattutto durante la realizzazione di alcuni film di Ushihara Kiyohiko, e diventa poi aiuto regista di Okubo Tadamoto in occasione di alcuni tra i suoi nansensu mono. La sua prima regia, nel 1927, è anche il suo unico jidaigeki, La spada della penitenza (Zange no yaiba), ispirato a Kick-in di George Fitzmaurice. Da quel momento e fino agli anni trenta, spazia in una grande quantità di generi, dagli ero guro nansensu mono ai melodrammi, con ampie incursioni nel mondo giovanile e studentesco, realizzando varie opere oggi quasi tutte perdute. E’ un lungo periodo di formazione per le opere migliori dei decenni successivi: selezionati gli innumerevoli modelli occidentali, Ozu va sviluppando un linguaggio personale e una peculiare tecnica nella “ritrattistica d’ambiente”, nel modo di riprendere un’azione drammatica svincolata dalle strettoie dell’intreccio, da una distanza discreta in cui far muovere, con oculata dialettica, il mezzo filmico. In questi anni resta comunque nel territorio del tirocinio, e sarà a partire dal decennio successivo che raggiungerà la perfezione per cui è noto.

Ozu rese una prima, importante prova di shoshimingeki con il film Il coro di Tokyo (Tokyo no gassho) nel 1931, convogliandovi entrambe le problematiche della precarietà del lavoro e dei rapporti interfamiliari tra generazioni. Il film si apre con una lunga e divertente sequenza pantomimica che vede un gruppo di studenti e un professore nel cortile di una scuola. Uno di loro, Okajima, si prende gioco dell’insegnante, dimostrando un’arroganza e una gioia di vivere che non gli sarà più possibile provare una volta entrato nel mondo del lavoro. Lo stesso personaggio, pochi anni dopo, è impiegato in una compagnia di assicurazioni, è sposato e ha tre figli. E’ il giorno in cui tutti gli impiegati ricevono la gratifica in busta paga, ma uno dei suoi colleghi viene ingiustamente licenziato, lui si schiera in sua difesa e perde a sua volta il posto di lavoro. Tace alla moglie la sua condizione, e dopo aver superato un duro momento a causa di una malattia della figlia (è costretto a vendere il corredo della moglie per curarla), trova lavoro come distributore di volantini per un ristorantino gestito dal suo ex insegnante. Nonostante il ricordo della sua arroganza giovanile, è proprio il professore che ora lo aiuta a trovare un nuovo impiego in una scuola di provincia e a rifarsi quindi una vita.

L’ambiente impiegatizio resta il preferito di Ozu. Il regista ritrae questa umanità per il suo fluido scorrere dell’esistenza che, senza lacerazioni improvvise e moti d’animo apertamente rilevanti, ripropone in miniatura la situazione della società in cui vive. I personaggi sono descritti nella loro funzione archetipa più che come eroi di un dramma individuale, ritratti per rappresentare l’ampia popolazione piccolo-borghese della capitale. I loro problemi derivano quasi sempre dalla disgregazione dei sani valori del passato, schiacciati dall’incalzare della modernizzazione. In Il coro di Tokyo il regista passa dal tono leggero della sequenza iniziale — pastiche derivato dalla sua precedente esperienza nell’ambito della commedia — a quello grave e intimista che funge da corpo centrale del film: si parla di un uomo che non è stato in grado di preservare il proprio lavoro, che non riesce a far fronte da sé alle emergenze familiari facendo invece ricorso ai beni della moglie, che si rende ridicolo davanti ai figli quando lo sorprendono a distribuire volantini (il che lo denigra rispetto all’ideale che costituiva prima per loro). Sono tutti piccoli elementi che un po’ per volta smantellano l’immagine di “famiglia felice” e la portano allo sbando, a un passo dalla povertà e dalla perdita di dignità. La lotta dei personaggi consiste nell’incessante sforzo di tappare le falle che si aprono nella loro quotidianità. Questo il tema portato pacatamente a galla da una narrativa sobria e sfogliata per gradi, presentata tra dialoghi laconici e uno sguardo che si abbassa a livello dei tatami come quello di chi osservi la scena sedendo tra i membri della famiglia, il tutto ripreso in inquadrature frontali di cui Ozu ha valutato con cura ogni gesto e ogni oggetto. Uno stile che il regista abbozza in questo film e porterà presto a perfezione nel corso della sua lunga carriera.

Ambientato in un’analoga atmosfera, quella della Tokyo impiegatizia, e con una maggiore caratterizzazione dell’universo infantile, Sono nato, ma... (Umarete wa mita keredo, 1932) è diventato il più celebre tra i film muti di Ozu. Se in Il coro di Tokyo i movimenti di macchina erano ancora frequenti, qui già vengono ridotti all’essenziale grammatica sintattica, ponderati in funzione della catena di diapositive sulla vita dei personaggi che Ozu sembra scattare. E’ la storia di un impiegato, sposato e con due bambini di otto e dieci anni, che si trasferisce nella vicinanze dell’abitazione del suo capo, nei cui confronti è sempre estremamente servile. Per contro, i suoi due ragazzi sottomettono il figlio del ricco uomo, usando come parametro di superiorità, tra gli altri, il fatto che il loro padre sia l’uomo migliore. Questo ideale viene però bruscamente mandato in frantumi quando i due, nel corso di una proiezione privata a casa del capo, assistono ad alcune scene di un filmato amatoriale in cui il loro padre si rende ridicolo per compiacere il datore di lavoro. Alla loro violenta richiesta di spiegazioni sul perché si comporti così, lui spiega che è inevitabile per poter guadagnare i soldi necessari per mangiare, e per reazione i due bambini intraprendono uno sciopero della fame. Tuttavia, accettano infine la realtà, e concedono all’imbarazzato padre di compiacere ancora il suo capo e, per contro, ne umiliano con maggior piacere il figlio.

Il film si divide in due parti distinte, demarcate dalla proiezione del filmato amatoriale. Nella prima parte ci troviamo nell’ambito della commedia, nella seconda l’umorismo si rarefà e si dilatano a macchia d’olio le note pessimistiche, la delusione dei bambini, il senso di impotenza del padre, fino alla constatazione che un uomo è migliore di un altro in base alla quantità di denaro che possiede. La prima parte si incentra così nel mondo dei bambini, mentre la seconda verte sui problemi del mondo dei salariati. La forza del film consiste soprattutto nell’interpretare questi problemi dal punto di vista e attraverso lo sguardo dei bambini, la cui innocenza e purezza permettono al regista di portare a galla impietosamente l’amarezza di un certo stile di vita. I bambini che ne accettano la logica rappresentano l’impossibilità di modificare il corso degli eventi, e dimostrano inoltre su più ampia scala come i rapporti sociali, nella fattispecie quelli tra l’impiegato e il suo capo, non differiscano da quello che si instaura tra i figli e l’autorità paterna.

L’ironia e il bagaglio di gag di questi primi film gradualmente si riducono, mentre il pathos si sublima nella patina che il tempo deposita sugli oggetti e sulle persone. In La donna di Tokyo (Tokyo no onna, 1933) le scene si dilatano, e ai personaggi è dedicata la stessa attenzione prestata ai segni della loro quotidianità (una teiera, una lampada, un macchinario), tanto a lungo quanto più metodicamente scorre il tempo della vita. Ancora una volta un film sui rapporti familiari, in questo caso di due coppie di fratelli: la dattilografa Chikako che si prostituisce in segreto per mantenere agli studi il fratello Ryoichi, la fidanzata di questi, Harue, che vive con il fratello poliziotto da cui le viene rivelata l’attività di Chikako. Quando anche Ryoichi viene informato da Harue del sacrificio di sua sorella, si toglie la vita. Eliminati quasi tutti i movimenti di macchina, in ogni inquadratura il vettore dinamico dell’in-azione diventa lo sguardo. Persino i corpi, qui attentamente composti secondo una iconografia che si potrebbe definire “delle schiene curve” (i personaggi ripresi di spalle o di lato e intenti in atti — cucire, bere, leggere — che li fanno rannicchiare su se stessi) comunicano tra loro solo nello spazio racchiuso dall’inquadratura, e vengono distribuiti su un asse ipotetico che segnala la profondità dell’immagine, un effetto reso anche dall’introduzione di una quarta parete (una porta o un fusuma dischiusi) tra macchina da presa e personaggi. Evitando qualsiasi forma di manipolazione della realtà (Ozu aveva già da Sono nato, ma... eliminato alcuni “artifici” come la dissolvenza), il tempo predomina in modo schiacciante sui personaggi, ai quali non resta che adattarsi al suo fluire e solo la morte (in questo caso di Ryoichi) può provocarne un brusco arresto.

Ozu non amava molto le novità tecniche, e per questo il suo primo film sonoro, Figlio unico (Hitori musuko), fu realizzato solo nel 1936. In un villaggio di campagna, una vedova che già lavora per il suo unico figlio, Ryosuke, intensifica i sacrifici pur di mantenerlo agli studi a Tokyo. Quando ormai Ryosuke lavora, la donna dà fondo a tutti i suoi risparmi per fargli visita nella capitale ma, contrariamente alle sue aspettative, scopre che il figlio, già sposato e con un bambino, abita in un’umile casa di periferia e lavora come insegnante part-time in una scuola serale. Ryosuke, con il supporto di sua moglie, si sacrifica a sua volta per rendere piacevole il soggiorno dell’anziana madre, ma di fronte al suo fallimento nel lavoro questa lo rimprovera di non aver lottato abbastanza. Al ritorno della donna in campagna, Ryosuke sarà pronto a combattere per una vita migliore e lei, soddisfatta, a morire.

Citiamo insieme a questo film un’altra opera di Ozu del 1942, C’era un padre (Chichi ariki), dalla trama e struttura analoghe. Horikawa, un insegnante vedovo, vive con il suo unico figlio, Ryohei. In seguito a un incidente in cui ha perso la vita uno dei suoi allievi, l’uomo sistema il figlio in una scuola del suo paese natale e si trasferisce da solo a Tokyo. Padre e figlio si incontrano saltuariamente: Ryohei è ora diventato a sua volta insegnante. I momenti trascorsi insieme hanno un profondo senso per il giovane, che vorrebbe per questo trasferirsi a Tokyo da suo padre, ma riceve un rifiuto dal genitore e l’invito a non abbandonare il suo lavoro e a sposare la figlia di un amico. Horikawa muore d’improvviso, comunque felice di vedere sistemato suo figlio.

Entrambi i film, che si aprono anche con la stessa scena (un gruppo di donne che camminano in successione trasportando dei fardelli sulla schiena), si prestano a un’interpretazione autobiografica, unici esempi nel cinema di Ozu: ricordano i suoi lunghi anni di separazione dal padre che, come Horikawa, manteneva la famiglia nel paese natale e risiedeva da solo a Tokyo. Come primo film sonoro di Ozu, di Figlio unico ammiriamo la capacità di registrare il silenzio, di farne cioè avvertire la presenza con la stessa incisività dei dialoghi. Entrambi i film utilizzano, perfezionati, i precedenti strumenti stilistici del regista. Si ripetono personaggi analoghi che perpetuano un’identica gestualità e ripropongono gli stessi ideali: la tradizione familiare, il sacrificio, la dignità dell’inserimento sociale. Mentre in Figlio unico, però, tali valori sono rivolti all’edificazione del personaggio (il figlio) come individuo, e quando sua madre lo invita a lottare pensa a delle felicità individuali (per il nipotino, per il figlio, ma anche per dare un senso agli sforzi della propria vita), in C’era un padre Horikawa spinge il figlio a operarsi al meglio per la comunità, rifiuta una felice convivenza con lui spiegandogli che la professione appena intrapresa è una missione per il bene della società alla quale va sottomesso il desiderio personale, un ideale esaltato nelle parole del giovane nel finale: “è stato un buon padre”.

Nell’insieme delle opere realizzate da Ozu tra gli anni trenta e quaranta, molti sono gli ottimi film, tra cui citiamo Dove sono finiti i nostri sogni di gioventù (Seishun no yume ima izuko, 1932), Capriccio passeggero (Dekigokoro, 1933), Storia di erbe fluttuanti (Ukigusa monogatari, 1934), Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Toda ke no kyodai, 1941). L’attività del regista cessa con C’era un padre negli ultimi anni del conflitto, ma dal 1947 riprende prolifica ritraendo lo stesso universo intimistico e familiare.

Mentre la fascia adolescenziale e giovanile in genere veniva quasi sempre connotata dai risvolti ottimistici del divenire, sull’ultima generazione gravava il disadattamento sociale, poiché i bambini, per lo più senza guida scolastica oltre che senza genitori, vivevano in uno stato brado che li portava sempre più ai confini della legge. Solo con le Olimpiadi di Tokyo del 1964 il fenomeno si sarebbe dichiarato concluso — era necessario costruire un’ottimistica versione del paese da mostrare all’estero — e il cinema perse quasi del tutto interesse per questa problematica, spostando lo sguardo della macchina da presa verso i chinpira (teppisti di mezza tacca) dei film sugli yakuza, che altro non erano che gli stessi bambini del dopoguerra ormai cresciuti.

Uno dei primi registi a ritrarre questa deriva umana fu Ozu Yasujiro, come ricorderemo già esperto del mondo infantile. Nel 1947 realizzò Il chi è di un inquilino (Nagaya shinshiroku), storia di una donna che suo malgrado si prende cura di un ragazzo orfano non desiderato al quale infine si affeziona. L’interesse del regista è tuttavia meno sociologico di quello di altri autori, soprattutto di Shimizu, Inagaki e Imai, pur riuscendo a offrire uno dei migliori ritratti dello scompiglio in città del periodo.

Il primo film di Ozu del dopoguerra è del 1947, Il chi è di un inquilino, un ninjo mono, a cui segue a distanza di un anno Una gallina nel vento (Kaze no naka no mendori). Tuttavia, il film che nel dopoguerra inaugura lo stile e le tematiche più rinomati di Ozu, quelli per cui viene oggi ritenuto uno dei più importanti registi della scena internazionale, è Tarda primavera (Banshun, 1949), opera che segna anche l’incontro tra Ozu e la sua attrice preferita Hara Setsuko: la bellezza pura della Hara e lo sguardo a livello dei tatami del regista rappresentano il fiore dell’estetica amata dai giapponesi, così come l’attenzione sulle componenti emotive e la denuncia del rischio di veder dissolti i valori delle famiglie di classe media avvicinano a questo cinema un numero incredibile di spettatori. Uno stile e una scelta tematica riproposti per anni con esigue varianti, seppure con una incessante opera di scarti, in un crescendo lirico che fa di questo maestro la voce più autorevole tra quanti tentano di descrivere nel cinema la realtà familiare.

Dal 1949 all’anno della sua morte, nel 1963, Ozu realizzò tredici film, oggi molto noti in occidente, tutti con sceneggiature scritte dallo stesso Ozu e dal fedele Noda Kogo, motivo in più per riconoscere un’impronta quasi immutata soprattutto nel taglio dato ai dialoghi. Il suo stile rifletteva già alcune costanti a cui ci si è riferito nei capitoli scorsi, un insieme di codici che rendono universali le sue situazioni: la posizione della macchina da presa a livello dei tatami, il dialoghi laconici e attinti dal quotidiano, la generale semplicità degli ambienti e delle situazioni, letti per quadri che si succedono in un flusso ordinato, un’estrema attenzione dedicata a ogni elemento visivo così da permettere allo spettatore di leggere ciascuna componente di questo mondo e sentirla come propria. I suoi personaggi non ambiscono mai a utopiche felicità, ma cercano solo di preservare l’equilibrio del nucleo familiare contro gli attacchi del tempo e del divenire della vita. Si tratta normalmente di famiglie ritratte nel momento in cui devono affrontare un evento destinato a mutare per sempre il loro piccolo mondo: il matrimonio della figlia, la morte di uno dei genitori, l’allontanamento dalla propria casa.

Tarda primavera racconta di una giovane donna (Hara Setsuko) che decide di non sposarsi per non abbandonare suo padre, il professor Somiya (Ryu Chishu, l’interprete ideale nei ruoli di padre nei film di Ozu). Per convincerla a intraprendere la propria strada, Somiya finge di volersi a sua volta risposare, cosa che infine non fa. Ozu riconferma le caratteristiche del suo stile di cui ha ormai una tale padronanza da poter asserire che non vi sia una sola caduta in questo film. Evita di rappresentare quei momenti nella vita dei personaggi che rendono esplicite delle emozioni particolari: tra i tanti esempi, non assistiamo qui né alla richiesta di matrimonio né alla cerimonia nuziale della donna, situazioni che restano relegate al margine del rapporto tra padre e figlia. Tradizione e modernità — sostrato anche del meno riuscito Le sorelle Munekata (Munekata shimai, 1950, basato su un romanzo di Osaragi Jiro), opera di cui lo stesso regista non si ritenne del tutto soddisfatto, e di tutte le opere successive dell’autore — in questo caso sono distribuite in modo anomalo tra i due personaggi cardine: la modernità è quella brezza di democrazia che induce il padre a rinunciare alla figlia purché lei sia felice, che fa sì che sia lui stesso a stimolarla a scegliere liberamente se sposare l’uomo proposto o meno; tradizione è l’ottusa ostinazione della donna a voler riproporre il ruolo atavico della figlia che accudisce al genitore rinunciando alla propria felicità (a partire da quella edipica, si schiudono in realtà molte altre possibilità di interpretazioni sul comportamento di questo personaggio).

Una macchina da presa lasciata distrattamente in funzione in un angolo di una casa e in pochi altri interni, senza che nessuno cerchi attraverso il suo occhio di cogliere un effetto o un salto emotivo: è questa la sensazione che si prova assistendo a Inizio di estate (Bakushu, 1951), un film, se possibile, ancora più assente di un centro drammatico rispetto ai precedenti, in cui tuttavia, in misura maggiore, il regista non ha lasciato nulla al caso. Una famiglia numerosa (i due nonni, il loro figlio con moglie e bambini, la figlia nubile dell’anziana coppia, Noriko) vive le giornate normali del proprio quotidiano. L’unica nota inopportuna della serena esistenza del gruppo è la lieve preoccupazione che Noriko non trovi marito. Un giorno una variante increspa la superficie della loro normalità: Noriko ha la possibilità di sposare un uomo più anziano di lei, ma proprio quando sta per accettare la proposta, si lega invece a un giovane ormai vedovo e padre di una bambina con una promessa di matrimonio fatta alla madre di lui. Così come in Tarda primavera tradizione e modernità erano state affidate a due tutori “al contrario” (figlia e padre rispettivamente), anche qui Ozu fa sì che i nonni accettino infine come naturale la scelta di Noriko, mentre il fratello vi si oppone sulla base di argomentazioni conservatrici, lamentando per esempio il fatto che si unisca a un vedovo, e la stessa Noriko ci fa capire di non essere mossa dall’amore, ma da una sorta di istinto di conservazione di una situazione già esistente (la bambina dell’uomo che già l’adora, la futura suocera che vede in lei la nuora ideale, e così via).

Dopo aver realizzato un interessante capitolo dedicato a una crisi coniugale, Il sapore del tè verde (Ochazuke no aji, 1952), opera di cui aveva scritto una prima sceneggiatura già nel 1939, girò il suo capolavoro, il film Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari, 1953), oggi ritenuto tra i migliori esempi di cinema del mondo intero. Una coppia di anziani vive nel sud del Giappone e intraprende un giorno un viaggio verso Tokyo per andare a trovare i due figli che vivono lì con le rispettive famiglie. Il loro entusiasmo è tuttavia smorzato dalla frenesia di vita dei figli, troppo indaffarati con il lavoro per potersi occupare di loro. A differenza di questi, la più disponibile è Noriko, vedova di un loro terzo figlio. Di ritorno a casa, la vecchia madre si ammala e muore. Una storia narrata con calma, con pacata riflessione, lasciando affiorare senza didatticismo le profonde differenze generazionali tra i personaggi. Alla base, un’apparente semplicità, in cui si identifica lo stretto lavoro intellettuale del regista/sceneggiatore, come nota Keiko McDonald in un suo interessante saggio: le sfumature, i gesti, i paesaggi, tutto viene dosato in rapporto a ciò che Ozu sapeva interessare il suo pubblico, che vi avrebbe identificato ben più di quanto apparentemente espresso. In tal senso, è forse verso che era “il più giapponese tra i registi giapponesi”, come da molti sostenuto, e si può temere che un pubblico occidentale trascuri dei particolari che per quello nipponico dischiudono interi immaginari. In questo film, in modo particolare, mancano quasi del tutto i movimenti di macchina, e la linearità visiva aiuta a cogliere l’armonia che lega i vari tratti del racconto, l’antico e il moderno, nonché i personaggi tra loro così apparentemente dissimili. Sobria la descrizione di come la famiglia tipo giapponese vada disgregandosi, senza tuttavia alcuna simpatia manifesta per il vecchio o per il nuovo. L’unico intervento del regista, quasi, sembra avvenire quando dilata uno spazio o un tempo in corrispondenza di un segno perché lo spettatore si soffermi a riflettere su di esso. Molti saggi e addirittura opere monografiche sono stati scritti su questo film, molteplici quanto numerose sono le possibilità di lettura della sua peculiare struttura (da un punto di vista semantico, religioso, iconografico). Un film da non perdere.

Tre anni dopo, nel 1956, realizzò Inizio di primavera (Soshun), tornando all’ambiente impiegatizio di altre sue opere precedenti e affrontando ancora il tema della crisi coniugale già proposto in Il sapore del tè verde. Il successo di Ozu pare scemare in questo periodo, anche se l’opera si assicurò l’abituale nomina nella lista dei “Best Ten” di Kinema Junpo. Non solo l’ambiente cinematografico andava mutando a vista d’occhio, soprattutto con l’introduzione di una nuova energia (quella dei taiyozoku eiga, e una generazione di registi era pronta ad affacciarsi alla scena produttiva di lì a poco) propria del mondo giovanile, ma il pubblico non premiava più come prima il suo tipo di cinema e richiedeva invece una certa novità. Nonostante ciò, il successivo film, Crepuscolo di Tokyo (Tokyo boshoku, 1957, sua ultima pellicola in bianco e nero), è un’opera dall’intreccio narrativo decisamente melodrammatico che tuttavia esplora, da un punto di vista differente da quello della “truppa del sole”, la stessa generazione di giovani giapponesi: due sorelle “ferite” nella vita dall’abbandono della propria madre, fuggita con un altro uomo, reagiscono in due modi distinti nella sfera sessuale e sentimentale, appellandosi ai residui tradizionali (la sorella maggiore che accetta di vivere con il marito che non apprezza purché sua figlia non subisca il suo stesso destino di semiorfana) o lasciandosi trascinare dallo sbando della modernità (la sorella minore che decide di abortire e le cui esperienze si concludono in un tragico suicidio).

Nel cinema di Ozu, apparentemente piombato in un’aurea di pessimistica ombratura, torna la luce con Fiore d’equinozio (Higanbana, 1958), nuova opera dedicata al conflitto generazionale descritto per la prima volta a colori. Hirayama è un padre che, nonostante si riveli liberale in merito ai problemi altrui, da egoista non ammette che sua figlia Setsuko abbia deciso di sposare l’uomo che ama senza il benestare della famiglia, anche perché ha già combinato per lei un matrimonio differente. Alla fine accetta comunque la scelta della ragazza. Se il potere patriarcale di Hirayama viene sconfitto dalla decisione della figlia e il consenso di tutti quelli che le sono intorno, in qualche modo la sua sorte è condivisa dal padre del successivo Buongiorno (Ohayo, 1959), per molti versi un remake del film Sono nato, ma... del 1932, in cui due bambini intraprendono uno sciopero del silenzio (nel precedente film era della fame) per reazione contro il rifiuto del padre di comprare un apparecchio televisivo, che infine ottengono.

Un altro remake più fedele alla prima versione è Erbe fluttuanti (Ukigusa, 1959, da Storia di erbe fluttuanti del 1934), storia di una troupe di attori che viaggia fino a un piccolo villaggio dove vive una donna che in passato aveva avuto una relazione con il principale interprete del gruppo, da cui era anche nato un figlio. Un terzo remake, speculare di Tarda primavera ma in versione femminile, è il film che realizza nel 1960, Tardo autunno (Akibiyori): non un padre, ma una madre vedova (qui interpretata da Hara Setsuko che nel precedente film ricopriva il ruolo della figlia), finge di volersi risposare per convincere sua figlia a unirsi a sua volta in matrimonio. Tutto in questo film, a esclusione dell’uso del colore, degli interpreti e naturalmente del ruolo della genitrice, è attentamente rivalutato senza mai tradire il modello originale: cardine di questa nuova versione, come della precedente, sembra essere sempre il matrimonio visto come una tappa necessaria nella vita di un individuo rispetto alla società in cui vive.

Gli ultimi due film del regista, L’autunno della famiglia Kohayagawa (Kohayagawa ke no aki, 1961) e Il gusto del sake (Sanma no aji, 1962) non nascondono le riflessioni di Ozu sulla morte, che sarebbe sopravvenuta nel 1963. Protagonista di entrambi è un uomo di mezza età, rappresentazioni dello stesso autore ormai quasi sessantenne, anche se le trame non lasciano intendere niente di autobiografico. Nel primo, il protagonista, già sposato e con tre figlie, si riunisce a una vecchia fiamma da cui aveva avuto in passato un’altra figlia, ma proprio quando riscopre una nuova vita con questa relazione, muore. Nel secondo, la trama è ancora una volta quella di un uomo vedovo che deve separarsi dalla figlia perché questa si sposi e si crei una propria vita. Rimasto solo nel pieno dell’autunno della propria vita, trova conforto nel sake. In entrambi i titoli ricorre l’immagine autunnale, dato che anche la costardella (sanma) del secondo titolo originale è in realtà un pesce che si mangia in autunno. La visione del declino non è però offerta in toni cupi, e al contrario entrambi i film presentano lievi momenti di umorismo, una leggerezza di tinte in cui la solitudine assume connotazioni meno tragiche.

Nel corso della lavorazione di Il gusto del sake la madre di Ozu morì. Rimasto sempre scapolo e particolarmente attaccato alla sua anziana genitrice, in molti ritennero che questa perdita fosse stata in qualche modo un triste presagio, visto che anche il regista, di lì a un anno, avrebbe perso la vita stroncato da un cancro proprio nel giorno del suo sessantesimo compleanno.

Estratti da "Storia del cinema giapponese", Venezia, Marsilio, 2001

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