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Koi no mon (Matsuo Suzuki, 2004)

INTRODUZIONE ALL’AMORE E ALL’ARTE: CONVERSAZIONE CON MATSUO SUZUKI

Sono sempre più numerose le figure di artisti giapponesi che si misurano in campi differenti prima di approdare alla regia cinematografica. L’esempio più noto è di certo il multimediale Kitano Takeshi (attore, pittore, comico teatrale, poeta, saggista e famoso personaggio televisivo prima ancora che regista), ma molti altri nomi sono stati di recente presentati a Venezia dopo aver acquisito in patria notorietà in altri ambiti. Per la Settimana della critica, per esempio, basterà ricordare il musicista-scrittore-regista Tsuji Jinsei (Sennen tabito), o ancora il pittore-attore-regista Okuda Eiji (Shojo). E’ questa la volta di Matsuo Suzuki, già volto molto noto in Giappone grazie alla sua lunga e pluripremiata attività di regista e attore teatrale, quindi di interprete di numerosi sceneggiati televisivi e di film, nonché di autore di saggi, romanzi e sceneggiature. Koi no mon è il suo primo lungometraggio e, stando a quanto suggerito dal suo autore nella nostra intervista, si ispira direttamente al mondo dei manga che ritrae, senza trascurare le esperienze maturate grazie alle sue altre attività.

“Comicità inedita, dialoghi dal taglio contemporaneo, un tema indovinato, personaggi bizzarri, una storia forte, quindi eros”, è la miscela suggerita dal press-book giapponese del film per indicare l’universo culturale di questo autore. “Pop culture”, aggiunge per mostrarne l’originalità dal taglio anti-intellettualistico. Koi no mon ha l’ambizione di voler mostrare come amore e arte possano essere frutto di un’unica gestazione, e per farlo eredita dal mondo originale del manga che adatta non solo le situazioni, ma soprattutto il potere visuale e il carattere adrenalinico dei piani. La scansione in quadri, le sfumature cromatiche, i movimenti dei corpi, una velata e patetica violenza, l’insistenza sulla ricorrenza di segni e simboli della cultura otaku, tutti questi elementi contribuiscono a sfumare il più grave tema della perdita della purezza in amore come nell’arte. Le asperità iniziali dei personaggi, rappresentate in simbolo dal contrasto tra la durezza della pietra e la fragilità del fiore, vengono così smussate da una generale comicità che rende ogni fallimento individuale una piccola conquista in direzione della felicità.

E’ evidente un certo divertissement nel riscoprire il regista Matsuo come interprete nel ruolo del personaggio posto a rappresentare il fallimento del connubio amore-arte. E ancora, per esigenza fumettistica più che cinematografica, non mangano i luoghi angusti in cui chiudere la rappresentazione (un ufficio, la stanza di lei, il bar dedicato ai manga) e la presenza di innumerevoli figure poste a spiarne i contenuti. Ma come chicche del film restano soprattutto le due piccole figure ritagliate per i registi Miike Takashi e Tsukamoto Shinya, il primo nel ruolo del tenutario di un ambiguo locale di Tokyo, il secondo come editore di manga fallito a causa del personaggio interpretato da Matsuo. Proprio loro, autori di un cinema definitivamente distante dalla cultura otaku, partecipano divertiti a questo bizzarro ritratto di giovani disancorati dal mondo.

Conversazione con Matsuo Suzuki

La sua attività non si limita all’ambito cinematografico. Lei è anche attore e regista teatrale, oltre che scrittore e interprete di varie serie televisive. Ritiene che questo suo film abbia ereditato stili e situazioni dalle altre sue esperienze?

Sicuramente ne ha ereditate un po’ da tutti i campi di cui mi occupo, ma soprattutto la maggiore influenza deriva proprio dal mondo dei manga del quale, sin da piccolo, sono sempre stato un grande appassionato. Infatti, come accade anche nel mio film, desideravo diventare un disegnatore di fumetti, ma purtroppo non ero veramente portato per questo tipo di arte.

Koi no mon adatta una serie di manga di Hanyunyu Jun.

Sì, si tratta di una serie piuttosto lunga che viene però ovviamente sintetizzata nelle due ore di durata del mio film. E’ per questo motivo che ho dovuto anche riassumere due-tre personaggi in figure uniche. Questo, naturalmente, non accade per i due protagonisti Koino e Mon, immutati rispetto all’originale.

Il titolo gioca sul doppio significato di “cancello (mon) dell’amore (koi)” e di “Koino e Mon”, cioè i nomi dei due protagonisti.

Koino e Mon non sono nomi comuni in Giappone. In questo caso, il gioco verbale serve a sottolineare una vera e propria introduzione all’amore, dolorosa per entrambi. Tale introduzione segue una specie di cerimoniale che in giapponese noi indichiamo con un termine preciso, “ayumiyoru”, per distinguere questa forma di innamoramento dalla semplice attrazione: significa in un certo senso che entrambi muovono dei passi uno in direzione dell’altro.

Quale significato hanno le pietre su cui Mon dipinge i propri manga?

La pietra rappresenta un segno virile e indica allo stesso tempo un’immagine dura e sterile d’artista, mentre il manga si distingue per uno stile più morbido. In questo film la pietra diventa il simbolo di Mon, così come il fiore lo è di Koino. I due simboli sono tra loro incompatibili, e solo variando un po’ uno in direzione dell’altro potranno raggiungere la felicità.

Nel suo film il pubblico occidentale potrà riconoscere tre volti già piuttosto noti. Oltre all’interprete principale Matsuda Ryuhei, conosciuto come il giovane protagonista del film Gohatto – Tabù di Oshima, due piccole chicche sono rappresentate dalle apparizioni dei registi Tsukamoto Shinya e Miike Takeshi.

Sono due registi che ammiro molto e dai quali credo di avere anche subito una certa influenza inconscia già in fase di stesura della sceneggiatura. Averli nel mio film è stato motivo di grande orgoglio.

Come avviene nel suo teatro, anche Koi no Mon predilige il timbro della commedia.

Sì, e anche se per l’Occidente il cinema giapponese rappresenta in particolare il ritratto di una società seria e tranquilla, nel mio caso mi piace poterlo utilizzare per svelare i lati più ameni e divertenti del mondo in cui vivo.

Estratto da Catalogo 19. Settimana internazionale della critica, Electa, 2004

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