Il sovrannaturale
Il corpo violato e contaminato, il varco socchiuso tra i mondi dei vivi e dei morti, le presenze fantasmatiche e orrorifiche, l’icona di donna-demone, tutti questi sono elementi che risalgono agli albori del mondo, secondo la cosmogonia nipponica. Le figure mitologiche dei fratelli-amanti Izanami e Izanagi rendono immediatamente l’essenza di tale immaginario[1]: a loro si deve l’origine dell’arcipelago e la nascita delle divinità del pantheon shintoista. Le opere che ne documentano la storia raccontano di come Izanagi abbia inseguito fino all’oltretomba la sorella Izanami, morta nel partorire il dio del fuoco. Nonostante la dea gli avesse chiesto di non posare lo sguardo su di lei perché già contaminata dalla sostanza della morte, il fratello non aveva resistito alla tentazione di scoprire cosa le fosse accaduto, aveva acceso una fioca luce, dando fuoco a un dente del suo pettinino, e ne aveva scorto inorridito le carni putride. Violata anche da quello sguardo che aveva sovvertito l’ordine naturale dei mondi dei viventi e dell’oltretomba, Izanami era dunque emersa dalle tenebre per ucciderlo, fermata solo da un’enorme pietra posta da Izanagi a bloccare l’uscita dall’aldilà. Da questo voyeurismo terrifico inizia la disamina del corpo femminile corruttibile dalla morte e il desiderio di perpetuarne l’orrore attraverso lo sguardo.
Quest’episodio iconizza anche l’asse spaziale lungo il quale si snodano le trame orrorifiche giapponesi: si manifesta sempre una verticalità, i cui estremi manicheistici sono rappresentati dal bene (zen) e dal male (aku), tuttavia controvertibili. La discesa agli inferi di Izanagi e la risalita di Izanami sono solo il primo esempio di come l’ordine venga incautamente ribaltato. Le frequenti immagini di tunnel, pozzi, ponti, scale e quant’altro sottolinei questa verticalità e bipolarità, nel cinema horror nipponico sono immediatamente evocativi del disordine causato dall’azzardato comportamento dell’uomo, che per primo ha violato quell’accesso, percorrendo a ritroso il viale dell’esistenza.
Un secondo aspetto di rilievo della mitologia, di cui ritornano echi nel mondo horror, è rappresentato dalla storia del primo figlio della coppia, Hiruko. A causa dell’impulsività di Izanami, che aveva pronunciato la promessa di matrimonio prima del suo compagno, il bambino era nato malforme. La coppia, disgustata dal suo aspetto, aveva deciso di abbandonarlo alle acque, definendo così il prodromo dei bimbi non vivi di molte storie horror. E’ interessante sottolineare come l’evoluzione di Hiruko nella mitologia non presenti connotazioni necessariamente negative. Il suo nome offre una doppia interpretazione, di cui la prima, dal significato di “bambino sanguisuga”, rende immediata l’idea della contaminazione causata in lui dal comportamento scorretto della donna, laddove la seconda, traducibile come “figlio del sole”, propone una versione della sua fondamentale purezza. La dicotomia ricorrente in varie opere filmiche tra puro e impuro, tra terrifico e rassicurante, tra trasfigurazione e divinazione, dunque, non è del tutto un elemento di novità ed evoca l’idea implicita che il “peccato originale” sia dipeso dalla donna.
Hiruko è un marebito, cioè una delle divinità che si ritiene giungano in Giappone dall’estero. Anche intorno alla figura dei marebito si è creato nel cinema un vasto repertorio di temi. Questi dei misteriosi, prevalentemente provenienti d’oltreoceano e residenti nelle profondità dei mari o nelle viscere dei monti, possono essere forieri di buone fortune, purché debitamente rispettati e accuditi attraverso i giusti rituali. Come entità erranti — quindi scardinati da qualsiasi contesto sociale —, per quanto il loro movimento tenda a essere ciclico e metodico, il mistero della loro presenza può diventare angosciante, soprattutto se utilizzato come escamotage orrorifico.
Risulterebbe riduttivo citare in poche parole l’eccezionale quantità di figure dal richiamo mitologico ricorrenti nei repertori horror. La loro presenza inquietante nella vita quotidiana, di continuo esorcizzata da precisi rituali come fuochi d’artificio, sagre e funzioni mistiche, continua a rappresentare da secoli il vaso di Pandora a cui si ispirano molte forme di arte. Nei periodi di scontento sociale, e soprattutto a partire dal periodo Tokugawa (1603-1868), questa mitologia ha attraversato una stagione di particolare fortuna: letteratura, teatro, pittura e persino cantastorie e vaudeville hanno composto immagini terrifiche legate alla mitologia nipponica e al repertorio folcloristico della regione, dove in particolare è il tema della mutazione a ricordare la violazione ancestrale di Izanami. Tra gli esempi più noti, le immagini violente delle stampe ukiyoe di Tsukioka Yoshitoshi, il noto “giardino dei teschi” di Utagawa Hiroshige, le Cento storie (Hyaku monogatari) illustrate dalle xilografie di Katsushika Hokusai, tutti autori che hanno dato forma a racconti dell’orrore già conosciuti dal loro pubblico. E in letteratura, un’opera per tutte, cioè i Racconti di pioggia e di luna (Ugetsu monogatari, 1776) dello scrittore Ueda Akinari, poi parzialmente oggetto di una trasposizione cinematografica dal titolo Racconti della luna pallida d’agosto a opera di Mizoguchi Kenji (1953): nove racconti, alcuni dei quali adattati da antiche storie di fantasmi cinesi, che giocano sul senso onirico delle trame per connettervi elementi della vita pubblica e diventare così metafora del caos umano.
Conosciuti in Giappone con il nome kaidan (a volte traslitterato in kwaidan dal titolo di un saggio di Lafcadio Hearn del 1904, oggetto dell’omonima e nota trasposizione filmica del 1964 di Kobayashi Masaki, premiata nel 1965 con il Premio Speciale della Giuria a Cannes), i racconti di fantasmi sono stati in periodo Tokugawa così famosi da costituire la base di un gioco di società chiamato “Incontro delle cento storie sovrannaturali” (Hyaku monogatari kaidankai): un gruppo di persone si riuniva in un luogo illuminato solo da candele, dove ciascuno dei partecipanti raccontava una storia di fantasmi, spegnendo alla fine della narrazione una delle fonti luminose. Si riteneva che con l’estinguersi dell’ultima fiammella apparisse un vero fantasma, poiché le tenebre sono in realtà sede del mondo dei defunti. L’evento delle “cento storie di fantasmi” ricorreva in corrispondenza della festività obon, celebrazione dei defunti che ha luogo in estate: è curioso notare che in Giappone la sensazione di brivido provata quando si ascolta un racconto dell’orrore si associa a un senso di freschezza, motivo che lo rende particolarmente apprezzato nei mesi di calura estiva. Questo gioco riscuoteva una straordinaria popolarità; molti dei racconti sono stati in seguito raccolti in libri e, a partire dal secolo scorso, trasposti in film, in fumetti e persino in una nota serie televisiva per la Fuji TV (2002-03), dal titolo Le cento storie di fantasmi (Kaidan hyaku monogatari).
Alla base di quelli che, con un termine generico, vengono indicati come shinrei mono eiga (film sui fantasmi, sul sovrannaturale), ricorrono alcuni termini particolari, ereditati dal folclore nipponico e per lo più indicanti il concetto di mutazione[2]. Gli obake mono (storie di obake, cioè “esseri che si trasformano”), per esempio, rappresentano un sottogenere letterario, teatrale e filmico che narra di tutte le presenze sovrannaturali incorse in metamorfosi. Non si tratta solo di fantasmi, il cui termine specifico è yurei, ma di entità preposte a sconvolgere un ordine noto, quello tangibilmente reale e pertanto rassicurante, con la mutazione imprevista che è propria della fragilità della natura umana e dell’idea che tutto sia transeunte. Gli obake, la cui presenza si associa spesso al fuoco (di fatto uno degli elementi più temuti), non sono solo esseri antropomorfi, ma anche oggetti e soprattutto animali, dei quali basti ricordare alcune tra le figure classiche, come il gatto, la volpe, il tasso — figure nello specifico della loro trasformazione definite kaiju (mostri).
Gli yurei sono fantasmi in senso classico e spesso spiriti che tornano tra i vivi per un desiderio di vendetta (in questo caso chiamati onryo o goryo). Si legano alla loro mitologia altre figure, tra cui gli oni (demoni) e gli yokai (mostri di varie forme, coboldi, kappa e rokurokubi[3]). Conservano l’aspetto ultimo della loro apparizione terrena, vestiti con il kimono bianco kitabira che indossavano al momento del loro funerale. Tra le loro caratteristiche c’è quella di non avere gambe, cioè di non conservare più un contatto diretto con il mondo terreno, di portare i capelli sciolti, segno della loro astrazione dal contesto sociale, e di avere il volto dipinto in bianco e indaco, i colori della morte. Nel caso degli onryo, il loro spirito non riposa perché ha subito un torto di cui devono compiere vendetta, nei confronti per esempio dei loro assassini o di chi ne ha macchiato l’onore in vita. Attiva e dirige il processo di paura quasi sempre un personaggio femminile, alternativamente vittima e nemesi del racconto, in cui si lasciano coincidere due topos antichi, quello della donna, quale entità arcana e spesso subdola e spiritica, e quello della madre in grado di concepire la vita, di offrire protezione ma anche di rivendicare il diritto di esistenza.
Prevalentemente, gli onryo tornano nei luoghi della loro esistenza, dove si scagliano con violenza e passione (in particolare nel caso di donne-fantasma) contro l’oggetto della loro vendetta. Il luogo riveste una funzione fondamentale. Si tratta quasi sempre della casa in cui il fantasma ha vissuto (il sottogenere definito obake yashiki, delle “case infestate”), cioè del luogo tradizionalmente ritenuto sicuro e ora apertamente violato, ma può trattarsi anche di luoghi pubblici come scuole, fino ad alternative tecnologiche di sede occulta, come una videocassetta, soggetto della serie horror più di culto degli ultimi anni, resa celebre dal film Ring (id., 1998, Nakata Hideo).
L’esempio più noto di tale tipo di storia di fantasmi è quello dell’opera letteraria Storia di fantasmi di Yotsuya del Tokaido (Tokaido Yotsuya kaidan). Ispirato al testo originale del 1825 di Tsuruya Nanboku IV, drammaturgo noto per il suo gusto grottesco e sanguinario, è stata oggetto di vari adattamenti in xilografie ukiyoe, nonché trasposizioni teatrali e cinematografiche. Per il grande schermo, la più famosa è ancor’oggi quella omonima, realizzata da Nakagawa Nobuo nel 1959; di recente Fukasaku Kinji ne ha realizzato una nuova versione, nota con il titolo inglese Crest of Betrayal (Chushingura gaiden: Yotsuya kaidan, lett. I 47 ronin fedeli – Storia dei fantasmi di Yotsuya, 1994), in cui ha incrociato anche la base della famosa storia dei “47 ronin” (Chushingura, la più celebre “leggenda” di vendetta dell’arcipelago) per parafrasare, nonostante l’ambientazione del XVIII secolo, il disordine economico e morale del Giappone nel periodo post-bubble. Nella trama originale di Storia dei fantasmi di Yotsuya, Iemon, uomo di condizioni modeste, cerca con tutti i mezzi di elevare la sua posizione di samurai. Dopo aver assassinato il padre di sua moglie Oiwa, non esita a uccidere anche lei, per sposare Oume e accelerare così la sua ascesa sociale. Il fantasma di Oiwa torna però da lui la prima notte di nozze. Iemon si macchierà di altri omicidi, prima che la sorella di Oiwa e il suo fidanzato riescano a vendicarsi.
Il personaggio femminile di quest’opera contrappone l’innocenza e la purezza del proprio rancore alla profonda malvagità di quanti sono rimasti in vita, soprattutto di Iemon. Tutti insieme disegnano in modo impietoso la fragilità dell’essere umano e tracciano un ribaltamento manicheistico tra il carnefice (che diventa in primis il marito, non certo il fantasma) e la vittima. Il mondo dell’oltretomba, in sostanza, non si prospetta molto differente da quello drasticamente reale in cui viviamo.
Alcuni paradigmi particolarmente amati dal pubblico dell’horror occidentale sono presenti anche nelle opere nipponiche. L’idea di inferno, per esempio, con impianto mistico ovviamente differente, rappresenta un classico nella cinematografia giapponese e nell’immaginario del suo pubblico: basti citare il caso di Inferno (Jigoku), film diretto dal maestro dell’horror Nakagawa Nobuo nel 1960, riportato sul grande schermo da Kumashiro Tatsumi con lo stesso titolo nel 1979 e infine oggetto di un terzo remake omonimo nel 1999, a opera di uno dei più affascinanti interpreti del genere, il regista Ishii Teruo. Nell’ultima versione, in cui trova particolare enfasi il dato visivo, con tinte, angoli di ripresa e riempitivi dell’immagine al limite del parossismo, il regista sceglie due episodi ugualmente emblematici della società a lui contemporanea, intersecandovi comunque altre aberrazioni umane: nel primo caso si riferisce a un feroce pedofilo assassino, trascinato negli inferi per subire incessanti ed efferate torture, evidente riferimento a Miyazaki Tsutomu, l’uomo tristemente noto per aver torturato, violentato, smembrato, cannibalizzato e videoripreso quattro bambine sul finire degli anni ottanta; il secondo si riferisce ai crimini della setta Aum Shinrikyo, responsabile del tragico e noto attacco con l’impiego del gas sarin nella metropolitana di Tokyo del 1995, narrando di una giovane attratta in un gruppo mistico da un santone e poi testimone negli inferi delle atroci torture inflitte ai membri della setta. In sostanza, attraverso le torture e la messa in immagini degli effetti del “peccato”, Inferno tocca alcune delle corde più vibranti e terrifiche dell’esistenza: non solo la paura della morte, ma soprattutto un’immortalità atroce o solitaria che è propria dell’espiazione, infinitamente riproposta perché disancorata dai parametri temporali dell’esistenza.
Elemento “insolito” nel cinema horror giapponese è invece rappresentato dai film sui vampiri (kyuketsuki eiga). La mitologia giapponese annovera tra le sue figure quelle di esseri-sanguisuga, per esempio le volpi (kitsune) che si nutrono degli esseri umani, ma ha importato l’idea occidentale del vampiro in tempi piuttosto recenti. Tra i primi titoli, il racconto letterario Il vampiro (Kyuketsuki, 1930) del famoso autore di mystery e horror Edogawa Ranpo, mentre nel cinema non si può non fare riferimento ai film di Nakagawa Nobuo, cioè La falena vampiro (Kyuketsuga, 1956) e La donna vampiro (Onna kyuketsuki, 1959), alle pellicole della trilogia vampiresca realizzata negli anni settanta da Yamamoto Michio[4] e, più di recente, alla produzione nippo-americana A Tale of Vampire – Virginia, diretto nel 1992 dalla regista Sato Shimako, poi autrice della celebre serie horror Eko eko azaraku cui si accennerà nelle prossime pagine. Un’altra nota va al film Moon Child (id., 2003) di Zeze Takahisa, interessante incursione futuristica nel mondo giovanile che vive ai margini della società, in cui il giovane protagonista vampiro, vittima della sua diversità, è umanizzato al punto da condividere con un giovane uomo il suo tragico destino[5].
Un interessante esempio, infine, per la regia di Shimizu Takashi, è Marebito (id., presentato al Festiva di Venezia con il titolo L’oscuro straniero – The Stranger from Afar, 2004, interpretato dal regista Tsukamoto Shin’ya nel ruolo del protagonista). Un cameraman cerca di comprendere in cosa consista la paura: venuto a conoscenza dell’esistenza dei DERO (Detrimental Robot, robot nocivi), si avventura nei sotterranei della metropolitana, dove ha avuto luogo un violento suicidio, fino a raggiungere una grotta in cui troverà la strana creatura (una giovane e fragile donna, apparentemente) dai denti da vampiro, che ha bisogno di nutrirsi di sangue per restare in vita. Il cameraman si prende cura di lei, fino a offrirle il suo stesso corpo. L’intero film è attraversato dallo sguardo “altro” di una videocamera, ribadendo così la funzione fondamentale dell’occhio meccanico che scava nei meandri della paura.
Tra le figure horror ereditate più esplicitamente dall’occidente, le mummie[6] e gli zombie sono probabilmente le più recenti. Anche se non opera cinematografica, merita una citazione la serie televisiva degli anni sessanta La mummia del terrore (Kyofu no miira, 1961), da cui pare sia stato particolarmente ispirato in gioventù il regista Kurosawa Kiyoshi [Kurosawa, 2003: 10]. Gli zombie sono invece protagonisti di molti titoli (spesso splatter) recenti. Tra vari esempi: Tokyo Zombie (id., regia di Sato Sakichi, 2005), interpretato da due attori ormai conosciuti internazionalmente, Asano Tadanobu e Aikawa ShØ, più grottesco che terrifico; Yoroi – Samurai Zombie (id., 2009, regia di Sakaguchi Taku - Tak), storia di vendetta giocata su effetti gore che riporta in “vita” degli antichi guerrieri; la serie Nihonbi (o Nihonbie, contrazione di “Nihon zonbi”, quindi “zombie giapponesi”), tre titoli che vedono giovani studentesse combattere contro zombie famelici[7]; e infine non si può non citare Versus (id., 2000, regia di Kitamura Ryuhei), un film che utilizza zombie, yakuza e figure varie per dare un ritmo d’azione davvero pressante, analogo a quello dei videogames e reso da una frenetica steadycam, che “compiace” il gusto dei cultori del genere senza elevarsi oltre la sua spettacolarità.
La reincarnazione, infine: molte sono le pellicole che vi accennano più o meno direttamente, tra cui Reincarnazione (Rinne, 2005, Shimizu Takashi), della serie “J-Horror Theater”. Un esempio importante, soprattutto per la violenta visionarietà, è rappresentato da Izo (id., 2004) del regista Miike Takashi, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti. Izo è un guerriero del XIX secolo estremamente violento e per questo torturato e messo a morte. La sua anima tuttavia vaga inquieta, divorata da un forte desiderio di vendetta, incapace di liberarsi dal suo rancore e quindi di spingersi verso la sua destinazione finale. Viaggiando nel tempo, si reincarna in un uomo a noi contemporaneo, e in questa veste scatena la sua furia omicida, seminando morte e subendo a sua volta sofferenza. Il personaggio serve come icona della violenza propria della natura umana, eternamente perpetuata e inarrestabile; per questo motivo il film si arricchisce di un ciclo di immagini, che rafforzano l’idea dell’iniquità della violenza attraverso la loro ripetitività estenuante, e della riproposizione di segni tratti direttamente dalla storia (Hitler incluso, ma anche un parto e documenti del II conflitto mondiale), che indicano l’impossibilità di sottrarsi a questa forza distruttiva e ineluttabile. La reincarnazione ciclica, quindi, è il segno più forte del perdurare nella natura dell’uomo di tale violenta componente, ma il ricordo delle atrocità stimolato dalle immagini a tratti psicotrope non sono sufficienti — secondo il regista — a guarire l’uomo da questa innata patologia.
[1] Le origini del mito: Le due fonti più importanti per la mitologia giapponese sono i testi Cronaca di antichi avvenimenti (Kojiki) e Annali del Giappone (Nihon shoki), completati rispettivamente nel 712 e nel 720. Entrambe narrano quanto avvenuto nell’arcipelago a partire dalla creazione di Cielo e Terra, includendo la nascita degli dei, spingendosi alle note sugli imperatori semi-leggendari che hanno regnato fino al VII secolo.
[2] I cento demoni illustrati: Tra i primi tentativi di compilazione delle presenze sovrannaturali in Giappone, nel XVIII secolo lo studioso Toriyama Sekien ne aveva tentato una definizione e una catalogazione attingendo da letteratura, arte e folclore. Il risultato è la pubblicazione, tra il 1776 e il 1784, di quattro opere illustrate, destinate a incentivare nelle generazioni successive il fascino verso il fantastico.
[3] Kappa e rokurokubi: I kappa sono tra le immagini più note tra gli yokai: sorta di mostri marini o che vivono in prossimità delle acque, possono assalire le persone, mangiare bambini e solo in rari casi simpatizzano con gli esseri umani. Rokurokubi sono in apparenza donne normali, che però si trasformano terrificamente durante la notte e, allungando il collo come un enorme serpente, vanno a caccia di prede, soprattutto uomini da cui risucchiare l’energia vitale.
[4] Leggende vampiresche: La celebre trilogia sui vampiri realizzata da Yamamoto negli anni Settanta comprende i titoli: Terrore nella residenza dei fantasmi - La bambola assetata di sangue (Yurei yashiki no kyofu – Chi o su ningyo, 1970), Casa malefica: Lo sguardo che succhia il sangue (Noroi no yakata - Chi o su me, 1971) e La rosa che succhia il sangue (Chi o su bara, 1974). Così come si sono moltiplicati negli anni i romanzi e i manga dedicati a leggende vampiresche, anche il mondo dell’animazione vi ha apportato vari contributi: tra gli altri, la serie di successo La principessa vampiro Miyu (Kyuketsuki hime Miyu), realizzata a partire dal 1988.
[5] Blood: The Last Vampire: I titoli legati al mondo dei vampiri si sono di recente moltiplicati vorticosamente. Tra quanti hanno riscosso grande fortuna, basti citare l’esempio del pluripremiato film di animazione Blood: The Last Vampire (id., 2000, regia di Kitakubo Hiroyuki su un’idea di Oshii Mamoru), diventato presto soggetto di un videogame e di un film omonimo diretto nel 2009 da Chris Nahon.
[6] La mummia: Miira, il termine traducibile come “mummia”, ha in realtà in Giappone una valenza di gran lunga differente da quella occidentale, poiché rappresenta l’effetto della pratica ascetica di automummificazione con cui si intende raggiungere l’immortalità ed è, allo stesso tempo, un segno dell’incorruttibilità del corpo e dell’essere umano. Intesa in senso “occidentale” non è stata in passato molto diffusa nel repertorio terrifico: una delle prime opere letterarie a farne chiaro riferimento, il racconto La mummia (Miira) di Nakajima Atsushi, è solo del 1942.
[7] Nihonbie: Il primo si intitola Zombie Forza di autodifesa (Zonbi jieitai, 2006, regia di Tomomatsu Nauyuki); il secondo Forze femminili ribelli dei nuotatori competitivi (Joshikyohei hanrangun, distribuito con il tit. Attack Girls Swim Team Vs The Unliving Dead, 2007, regia di Kawano Koji); il terzo La liceale Rika: Zombie Hunter (Saikyo heiki joshikoosei: Rika – Zonbi hanta Vs saikyo zonbi Gurorian, 2008, regia di Fujiwara Ken’ichi).
Estratto da "Metamorfosi - Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese", Epika, 2010