L’ombra del totalitarismo nel cinema giapponese
L’ombra del totalitarismo nel cinema giapponese
Nel 1923 un violentissimo terremoto si abbatte sull’area di Tokyo e Yokohama, i due centri più popolati del Giappone, provocando la morte di oltre centomila persone e la distruzione delle due aree metropolitane, incluse le strutture e le attrezzature cinematografiche. Gli anni che seguono, impiegati nel rapido ripristino della qualità di vita precedente al disastro, segnano una svolta determinante nella produzione cinematografica. Grandi e piccole case di produzione avviano la realizzazione a tappeto di opere, spesso riferite alla recente catastrofe, che gradualmente danno più voce al popolo minuto e al suo sforzo di ripresa. Non si tratta solo di film di ambiente contemporaneo, dove tuttavia si diversificano in breve vari sottogeneri inediti, ma anche di film in costume dal rinnovato stile che, fino alla metà degli anni Trenta, rappresentano l’ultimo veicolo della voce della libertà, prima di essere piegati a disegni propagandistici.
Il jidaigeki (cioè film in costume) della stagione precedente, di stretta derivazione dal kabuki, viene reinventato a partire da una recente scuola teatrale chiamata shingeki (nuovo teatro), direttamente ispirata a modelli europei; in particolare, eredita da questa la composizione realistica delle scene di lotta: duelli spettacolari che strizzano l’occhio anche a un certo cinema statunitense (alla Douglas Fairbanks), con azione sostenuta e con grandi effetti di scena, tra cui rapidi movimenti e copiosi fiotti di sangue. Le storie vengono ambientate prevalentemente in periodo Tokugawa (1600-1867), il periodo di pace più lungo registrato nella storia giapponese, e prendono il nome di chanbara, un onomatopeico derivato dal rumore del clangore delle spade.
Calati in atmosfere nipponiche, in breve i chanbara diventano strumento ideale per veicolare istanze ideologiche di varia natura. A differenza dei film elegiaci in costume del decennio precedente, vengono selezionati prevalentemente modelli di eroe vicini all’uomo comune, personaggi vulnerabili con cui identificarsi, soprattutto anarchici rØnin (samurai senza padrone) che animano un sottobosco malavitoso e che si battono spesso per proteggere i deboli. A loro viene affidata la gestione morale del binomio giri (obbligazione sociale) e ninjo (sentimento umano) che regola gran parte della società giapponese e intorno a cui si dibattono le scelte produttive della cinematografia fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Questo genere di film raggiunge un livello qualitativamente elevato già a partire dal 1923, grazie alla particolare sinergia di talenti ottenuta dall’incontro tra lo sceneggiatore Susukita Rokuhei e un gruppo di registi (Kanamori Bansho, Inoue Kintaro, Futagawa Buntaro, tra gli altri), tutti poco più che ventenni. Nonostante lavorino con budget esigui per delle produzioni indipendenti, questi giovani creano una giusta mistura tra azione e pathos attingendo a piene mani dal repertorio della letteratura popolare, in particolare portando in scena i personaggi amati da un vastissimo pubblico attraverso la serializzazione di romanzi pubblicati sui principali quotidiani. Nelle gesta, per esempio, di leggendari uomini sovversivi come Miyamoto Musashi, Tsukue Ryunosuke, Kunisada Chuji e Tange Sazen, liminali rispetto alla società perché fuorilegge, lo spettatore legge i segni di un generale malessere che culminerà nella depressione economica del 1929. Come nel caso del film Il drago (Orochi, 1925, di Futagawa Buntaro), uno dei risultati più alti della stagione interpretato dal memorabile Bando Tsumasaburo, seppure traslato nell’ambiente del diciottesimo secolo, il racconto della rivolta di un uomo verso l’ordine costituito ha un sapore tristemente tangibile e attuale.
In questi stessi anni, tuttavia, il governo ha cominciato a valutare la possibilità di estendere un controllo sulle regole produttive. Il primo passo è rappresentato da una regolamentazione — in questa fase ancora blanda — dei contenuti dei film, ottenuta attraverso le norme censorie promulgate dal Dipartimento Nazionale di Polizia (Keihokyoku) del Ministero degli Interni nel 1925. Tali norme non impediscono comunque che il cinema si renda portavoce del contemporaneo disagio sociale. La già citata crisi economica che culminerà nell’anno nero del 1929, infatti, funge da sfondo per una serie di film, definiti “di tendenza” (keiko eiga), che raccolgono un pubblico nutrito nelle sale. In ambiente contemporaneo, si moltiplicano così i ritratti di personaggi che tentano di sopravvivere attraverso sotterfugi alla mancanza di lavoro e alle ingiuste discrepanze sociali, ritratti spesso ispirati dalla contemporanea letteratura dei movimenti di sinistra. Tra i tanti titoli di successo basti citare Una bambola vivente (Ikeru ningyo, 1929) di Uchida Tomu, La marcia su Tokyo (Tokyo koshinkyoku) e Sinfonia metropolitana (Tokai kokyogaku) di Mizoguchi Kenji, tutti del 1929, ma soprattutto il film Cosa l’ha spinta a farlo? (Nani ga kanojo o so saseta ka) di Suzuki Shigeyoshi che viene proiettato nelle sale per ben cinque settimane di fila.
Siamo però alle soglie di uno degli avvenimenti che più di altri conducono alla triste escalation militarista: nel 1931 l’esercito giapponese invade la Manciuria creando in loco uno stato fantoccio, dando il via a una rapida serie di elementi di regime. In ambito cinematografico, si moltiplicano con analoga rapidità le norme che inaspriscono il controllo censorio sulle produzioni e a farne le spese sono proprio i film di tendenza, pericolosamente vicini alla denuncia, finché, nel giro di un paio di anni, sarà impossibile realizzarne. Sorte analoga, se non peggiore, spetta alle produzioni cinematografiche legate al settore filmico Prokino (cinema proletario) del NAPF[1], il cui intento, nelle parole di uno dei fondatori, il critico Sasa Genju, è di criticare da un punto di vista sociale i film dossier, evidenziarne i difetti, dimostrarne un possibile controutilizzo, registrare e proiettare film del proletariato, condurre un’opera di presentazione e di ricerca delle cinematografie di altri paesi come la Russia sovietica. In sostanza, si tratta di film documentari e di cinegiornali, prodotti tra il 1929 e il 1934 e proiettati quasi in illegalità, dal forte potere di denuncia, con cui si rendono anche noti i risvolti di alcuni famosi fatti di cronaca evidenziandone i risvolti politici. Nel momento di massima repressione, sul finire del movimento, molti autori vengono addirittura arrestati come sovversivi e il genere represso energicamente.
Rispetto alle opere di ambiente contemporaneo, lievemente diversa è la situazione dei film di tendenza ambientati nel passato. Caratterizzati da un accurato realismo e dall’alta capacità di creare un impatto ideologico plasmante sulle masse, questi film velano le problematiche e le rendono apparentemente meno concrete proprio grazie alla trasposizione in ambienti del passato. Maestro assoluto di tale cinema è, in questi anni, il regista Ito Daisuke, autore prolifero che lega il suo nome all’attore Okochi Denjiro, il cui volto presto viene identificato con quello dell’eroe ideale, rude, egoista e nichilista. Le tematiche, a partire dal 1926, hanno sempre sfondo sociale e narrano di ribellioni verso le forze dell’ordine, di ingiusti accanimenti contro il popolo, dell’impossibilità di sottrarsi da tale destino. La tecnica di ripresa effettuata attraverso un inedito utilizzo della macchina a mano, con grande varietà di angoli e con un montaggio convulso, crea effetti di azione che ammiccano con successo al pubblico più giovane. I personaggi interpretati da Okochi, per lo più di estrazione popolare, animati da una rabbia incontrollabile che esplode nella gestualità drammatica dell’attore, in molti casi lottano nel segno della vendetta (in giapponese: katakiuchi, un antico codice decretato illegale nel 1873), una metafora per rivendicare i diritti sociali sempre più repressi dal militarismo.
Tra i film in costume, quelli di ItØ sono tra i primi a subire pesanti tagli di censura perché ritenuti di pericolosa istigazione alla rivolta. Allo stesso modo vengono controllati e poi censurati altri film di analogo impatto, tra i quali quelli realizzati dal regista Makino Masahiro (autore del famoso La strada dei ronin - Roningai, del 1928-29). In questo stesso periodo si assiste anche a una crescente xenofobia che limita il successo dei film stranieri e, allo stesso tempo, si moltiplicano i film che veicolano i dogmi nazionalistici. Ciò nonostante, nei primissimi anni Trenta si fa strada a Kyoto la produzione di nuovi film in costume che sembrano rinverdire le possibilità di denuncia dei recenti film di tendenza. Protagonista indiscusso di questa nuova stagione è il giovane regista Yamanaka Sadao, a cui si deve l’invenzione di uno stile realistico, vagamente ironico, spesso di una comicità dall’intreccio di tipo hollywoodiano, con cui descrive la vita quotidiana della gente comune senza alcun romanticismo, grazie anche all'emergere del soggetto sulle categorizzazioni sociali, offrendo un complessivo omaggio lirico all’umanità. Il suo modo di narrare piccole storie di estrema attualità rivisitate con gli occhi di un uomo moderno, realista e poetico, dà vita a una lunga serie di titoli (oggi ce ne restano purtroppo solo tre) che riscuotono un ampio successo di pubblico e conservano tuttora un’intatta modernità. Il migliore di questi è il suo ultimo film, Sentimenti umani e palloncini di carta (Ninjo kamifusen, 1937), la sua opera più pessimistica circa la condizione dell’uomo nella società regolata da condizionamenti da filo-regime. A causa del messaggio eversivo velato in questo film, Yamanaka viene “condannato” a partire per il fronte come soldato semplice e lì muore nel 1938 a soli ventinove anni.
L’eredità di Yamanaka viene comunque raccolta da altri cineasti, in particolare Itami Mansaku e Inagaki Hiroshi, che riescono ancora a portare alla ribalta analoghe istanze in alcuni memorabili film in costume come Akanishi Kakita (id. 1936) e L’uomo del risciò (Muhomatsu no issho, 1943), seppure dovendo subire pesanti tagli censori. Bisogna sottolineare, inoltre, la produzione in questi anni di un genere comico legato alla figura dell’attore Enomoto Ken’ichi (noto come Enoken), tra i pochi film a passare indenni sotto la censura: le storie costruite intorno a questo buffo personaggio (l’attore è piccolo e sgraziato) contengono tra le righe un’alta carica eversiva poiché riescono a ridicolizzare temi “scottanti” come il valore guerriero, manifesto della conquista militarista.
Come accennato nelle scorse righe, si fa già strada in questi anni una produzione di film in costume a cui viene affidato il credo militarista. Per lo più si tratta di film storici mirati all’esaltazione della grandezza del passato, in cui alle vicende personali e drammatiche si sostituisce la glorificazione di precise figure storiche. Tra i valori che maggiormente si vogliono inculcare, lo spirito di abnegazione, il senso di sacrificio e di devozione verso il proprio signore (quindi l’Imperatore), la necessità di piegare l’interesse personale a quello generale. Sebbene molti film siano talmente intrisi di dogmi da non riuscire a segnalarsi per qualità artistiche, è proprio in questo genere che il regista Mizoguchi Kenji realizza uno dei suoi migliori film del periodo, Chushingura dell’era Genroku (Genroku Chushingura, in due parti, 1941-1942). La trama base dei vari Chushingura, il maggiore oggetto di remake della storia del cinema giapponese oltre che di drammi teatrali e letterari, è quello di 47 ronin che covano a lungo una vendetta e la portano a termine per poi togliersi la vita: gli elementi di propaganda ci sono quasi tutti, in particolare la ferrea volontà di morte che funge da modello per i kamikaze, anche se in questo film Mizoguchi riesce a mitigare i parametri di glorificazione di queste morti.
A causa dei messaggi trasmessi in termini di accondiscendenza al regime, i film in costume vengono pesantemente censurati dalle forze di occupazione americane nell’immediato dopoguerra, e molti di quelli realizzati in questi anni vengono addirittura distrutti. Va tuttavia sottolineato che l’ambiente del passato, ironicamente, sarà anche quello che renderà famoso il cinema giapponese nel mondo grazie al Leone d’Oro vinto a Venezia dal film Rashomon (id. 1951) di Kurosawa Akira.
Clima di guerra
Insieme all’invasione in Manciuria del 1931, altre tre date segnano storicamente delle tappe determinanti per il rampante successo militaristico del Giappone: il 1936 (il 26 febbraio, per l’esattezza), quando un comando della prima divisione militare irrompe nella capitale nipponica e assassina vari membri del governo; il 1937, anno di inizio della guerra sino-giapponese, proseguita poi fino al 1945; infine, il 1941, data in cui avviene l’attacco a Pearl Harbor seguito dalla dichiarazione di guerra alle principali potenze mondiali. La produzione cinematografica del periodo compreso tra questi avvenimenti storici subisce repentine variazioni, piegata sempre più al disegno governativo. Volendone riassumere le principali linee, potremmo suddividere i film sul filo dei valori che si vogliono inculcare, cioè della famiglia, dei giovani, della guerra giusta, della necessità di espandersi in nuove colonie asiatiche, dell’amore piegato al bene comune. Sul fronte opposto, naturalmente, non mancheranno le opere che tentano di astenersi dai fini propagandistici e quelle che cercano addirittura di “remare contro”.
Decisivo spartiacque nella libertà espressiva è costituito dalla messa a punto, nell’aprile del 1939, di una nuova legge sul cinema formulata sull’esempio della Spitzenorganisation der Filmwirtschaft della Germania nazista e posta in vigore dall’ottobre dello stesso anno[2]. Attraverso i suoi ventisei articoli, il governo può gestire capillarmente ogni fase di produzione, distribuzione e proiezione dei prodotti autoctoni, quindi inculcare attraverso il cinema la coscienza nazionalistica e, allo stesso tempo, dar forma e immagine a una scontata vittoria.
La stessa legge prevede che le sale cinematografiche rispettino un preciso programma di proiezione, per la durata complessiva di non più di tre ore, che deve includere, oltre a un film a soggetto, un cinegiornale (nyusu eiga) e un film culturale (bunka eiga), i due maggiori strumenti di propaganda attraverso il cinema di questi anni. Con “film culturali” si intendono i documentari didattici che il Ministero dell’Educazione ritiene possano “contribuire all’elevazione delle spirito nazionale o allo sviluppo delle facoltà intellettive nazionali”, come già avviene per i kulturfilm tedeschi. I soggetti possono variare dall’ambito scientifico alle dimostrazioni artigianali, fino a situazioni legate alla guerra. Se i “film culturali” hanno scopo educativo, i cinegiornali hanno fine informativo e contribuiscono ad accorciare la distanza tra quanti sono partiti per il fronte e i loro familiari rimasti in patria. La fedeltà cronistica viene pertanto manipolata per evitare che il pubblico colga il lato oscuro della guerra; al contrario, un grande accento è posto sulla forza delle armate nipponiche e sui successi di conquista di nuovi territori.
Scopo analogo ha la realizzazione di gran parte dei film girati nelle colonie occupate durante l’espansione panasiatica. Se nei rispettivi paesi il cinema contribuisce all’operazione di asservimento culturale, così da inculcare l’idea della supremazia politica e culturale della razza nipponica, i film destinati al mercato giapponese girati a Taiwan, in Corea e negli altri stati coinvolti veicolano un messaggio edulcorato e rinfrancante: si tratta per lo più di storie che mostrano come gli invasori effettuino una benevola opera di educazione dei popoli, che mostrano i nuovi terreni di espansione come nuovi paradisi inesplorati, che raccontano in più casi con tecniche da melodramma popolare storie d’amore vissute tra un giapponese e una donna del luogo, così da esaltare lo spirito fraterno tra i popoli. In particolare su questo tema, molti sono i film di grande successo, tra i quali basti citare La canzone dell’orchidea bianca (Byakuran no uta, 1939) di Watanabe Kunio, Notte cinese (Shina no yoru, 1940) di Fushimizu Shu e Il giuramento nel deserto (Nessa no chikai, 1940) di Watanabe Kunio, ambientati rispettivamente a Shanghai e a Pechino.
E’ fondamentale che sia l’amore il perno della propaganda, considerando che il pubblico residuo in Giappone è prevalentemente femminile. Del resto, prima che la carenza di pellicola induca il governo a una stretta sui cordoni di produzione per quanto riguarda il cinema “superfluo”, cioè non di diretto indottrinamento, le storie sentimentali (ren’ai mono) hanno riscosso un enorme successo nell’ultimo decennio. Si è trattato per lo più di storie basate su rapporti contrastati, spesso a causa delle differenze sociali tra gli amanti, ma corredate di un affrancante happy-end. Alcune, come L’albero dell’amore compassionevole (Aizen katsura, 1938, di Nomura Hiromasa) e Correnti calde (Danryu, 1939 di Yoshimura Kozaburo) sono state a lungo grandi successo al botteghino, portando alla luce eroine coraggiose e piene di passione.
Queste storie che puntano i riflettori sulla sfera personale si aggiungono poi a quelle dedicate alla famiglia e alla piccola borghesia (intesa la famiglia come microcellula dell’ampio disegno governativo), genere benvisto dal progetto governativo. In questo ambito si cimentano anche alcuni tra i registi meno impegnati sul fronte sociale e politico, e tra questi Ozu Yasujiro, i particolare con il dittico Figlio unico (Hitori musuko, 1936) e C’era un padre (Chichi ariki, 1942) — entrambi sul rapporto tra un genitore e un figlio — e il regista Naruse Mikio con Tutta la famiglia lavora (Hataraku ikka, 1939).
Allo stesso modo, grande successo hanno i film dedicati ai più giovani, in particolare ai bambini (già protagonisti indiscussi di un’ampia fetta della produzione letteraria). Le esperienze vissute da questi piccoli interpreti possono essere utilizzate come strumento di critica da una lato (dato che portano in sé i segni degli errori dei loro padri), come specchio di valori dall’altro (grazie alla purezza che li distingue). Allo stesso tempo, ai piccoli vengono affidate le speranze per l’edificazione di un futuro migliore. Moltissimi sono i titoli a loro dedicati, e in particolare vanno segnalati quelli per la regia di Shimizu Hiroshi, il più attento tra i ritrattisti dell’infanzia, che combina alle storie di grande pathos una giusta mistura di tecnica documentaristica, ambientazione scabra, sostrato poetico e spontaneità di recitazione.
I film di guerra e le possibili alternative
Il popolo giapponese sperimenta per la prima volta il fuoco sulle proprie case solo sul finire della guerra. Fino a questo momento, complici le immagini giunte attraverso il cinema, è viva l’idea che il Giappone stia vivendo un momento di splendore che aprirà la strada a un futuro roseo, motivo che giustifica ogni sacrificio di vite e di sofferenze. Il sogno dura fino all’annuncio della resa da parte dell’Imperatore Hirohito, e in quel momento la disperazione per il risveglio nella realtà porterà a una catena di suicidi per una sconfitta che è più morale che di patria.
Dal 1938, tuttavia, si è assistito a una crescente produzione di film che esaltano le gesta guerriere dei soldati impegnati al fronte. Tra i titoli più famosi si notino in particolare i primi I cinque ricognitori (Gonin no sekkohei, 1938[3]) e Terra e soldati (Tsuchi to heitai, 1939) di Tasaka Tomotaka, film in cui tuttavia non si avverte ancora in pieno un chiaro ritratto della supremazia giapponese sul nemico o elementi dell’estetica militarista basata sull’abilità con le armi. Risultato raggiunto invece da molte altre produzioni che seguono, in particolare il celebre La guerra sui mari dalle Hawaii alla Malesia (Hawai Maree okikaisen, 1942) del regista Yamamoto Kajiro, commissionato dal Ministero della Marina per celebrare il primo anniversario del successo conseguito a Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, in cui si assiste all’addestramento (morale più che fisico) di giovani soldati destinati a sacrificarsi come kamikaze. Tra i tanti titoli che si legano a questo prototipo plagiante, basti citare dello stesso regista I falchi da caccia del generale Kato (Kato hayabusa sentotai) e Partono le squadriglie degli uomini siluro (Raigekitai shutsudo), entrambi del 1944, o ancora quelli firmati da Abe Yutaka — noto per il suo gusto per l’azione dinamica di stampo hollywoodiano —, tra i quali Cielo in fiamme (Moyuru ozora, 1940) e Ghirlande dei mari del sud (Nankai no hanataba, 1940). E così via includendo le opere di registi che in qualche modo si specializzano nel genere, tra cui Kumagai Hisatora, Watanabe Kunio e lo stesso Tasaka.
In decisa opposizione al cinema di regime, solo il regista Kamei Fumio tenta di realizzare film in ambiente di guerra su registro differente. Dopo aver girato nel 1937 i due film Shanghai (Shanhai) e Pechino (Pekin), in cui già aveva dato risalto alla distruzione e alle atrocità della guerra, nel 1938 realizza Soldati in lotta (Tatakau heitai), infliggendo un duro colpo alle direttive governative. In questo film, infatti, utilizzza lo stesso materiale usato a fini propagandistici per mettere in luce la crudele missione sterminatrice. I soldati sono ripresi come uomini stanchi e malati che si muovono tra poveri vecchi e bambini cinesi ridotti alla fame. Il film, alla sua uscita, viene immediatamente proibito e Kamei, dopo la realizzazione di altri tre film documentari dalle “pericolose” tendenze eversive, viene arrestato.
Di posizione meno estrema, altri registi cercano di sottrarsi all’opera di propaganda girando film che adattano famose opere letterarie (genere però in esaurimento dagli inizi degli anni Quaranta perché ritenuto superfluo), oppure narrando le vite di famosi attori di teatro (è il caso di Mizoguchi con la trilogia Racconto dei tardi crisantemi - Zangiku monogatari, 1939, La donna di Osaka - Naniwa onna, 1940 e La vita di un attore - Geido ichidai otoko, 1941), grazie alle quali nessun particolare diventa universale. In generale, però, come accade contemporaneamente in Italia, il cinema giapponese deve piegarsi a una triste coralità.
Dopo le due esplosioni atomiche a Hiroshima e a Nagasaki nel 1945, con l’arrivo delle truppe di occupazione americane, il cinema è uno dei primi settori in cui intervengono i nuovi censori. Sotto il controllo dello SCAP (Supreme Comandment of the Allied Powers) il 22 settembre del 1945 venne istituito il CIE (Civil Information and Education Section), l’organo con cui il governo di occupazione intende estendere la sua nuova propaganda di rieducazione. In breve vengono formulate nuove norme che gestiscono capillarmente la produzione tanto quanto aveva fatto il controllo di regime e infine, nel 1949, viene istituito il “Comitato di controllo della regolamentazione etica” (Eiga rinri kitei kanri iinkai, noto come Eirin), l’organo di censura ufficiale di governo ancora in voga oggi. Si chiude così una pagina buia della storia del cinema giapponese in cui tuttavia non si può fare a meno di scoprire nomi di talento (tra gli esordienti di questi anni, basti ricordare Kurosawa Akira e Kinoshita Keisuke) e film dall’indubbio valore artistico. Nei vent’anni che precedono la fine della II Guerra Mondiale, inoltre, il cinema in Giappone ha avviato gran parte dei generi filmici di successo nei decenni successivi. Nel dopoguerra, ha raggiunto così una maturità che lo vede tra i protagonisti, insieme alle scuole statunitensi, francese e italiana, dell’intera cinematografia mondiale.
[1] Nel 1928 viene costituita la “Federazione artistica dei proletari giapponesi” (Zen Nihon musansha geijutsu dantai), nota con l’acronimo NAPF (Nappu in giapponese) dalla sua versione in esperanto “Nippona Artista Proleta Federacio”, un’associazione su ampia scala che intende regolare i nuovi orientamenti artistici, letterari e cinematografici formatisi nell’ambito della sinistra marxista giapponese.
[2] A livello di contenuto, la legge sul cinema impone soggetti che esaltino la famiglia imperiale, lo spirito familiare, il senso di sacrificio per la patria, e in cui non si accenni a note felicità individuale, non si critichi il potere politico, militare e imperiale, in cui non vi siano elementi estranei alla tradizione come l’uso di terminologie straniere, le scene di donne intente a fumare o che si intrattengono nei bar. Infine, si auspica l’esaltazione della produzione agricola e quella industriale in generale. A partire dal 1940, si aggiungono ulteriori limitazioni e, nel 1941, poi, vennero proibite le proiezioni di film americani e inglesi. La chiusura definitiva è sempre del 1941, quando il governo decide di riunire le case di produzione esistenti in pochi gruppi, al fine di controllarne più agilmente le attività.
[3] Il film ha ottenuto il riconoscimento internazionale raggiunto con una Coppa del Ministero della Cultura Popolare al Festival di Venezia (dove il film è stato presentato con il titolo La pattuglia).
Estratto da "L'ombre du totalitarisme dans le cinema japonais" in R. Muller; T. Wieder (a cura di), Cinema et regimes autoritaires au XXe siecle, Paris, Presses Universitaires De France