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Nelle sale alla fine del II conflitto mondiale

Dopo l’istituzione nel 1946 della Chentoraru eigasha (Central Motion Picture Exchange), diretta da Michael Bergher, un organismo che inglobava le principali case di produzione statunitensi (Warner, Paramount, MGM, Universal, RKO, Columbia, Fox, United Artists) che regolava la distribuzione delle loro pellicole in Giappone (come nel passato, vennero adibite alla loro proiezione apposite sale, distinte da quelle destinate ai prodotti autoctoni), selezionò un carnet di film che avrebbero dovuto fungere da modelli per i valori da inculcare. Nel 1946, a partire da Madame Curie (1944, Mervyn LeRoy), indicativamente, i titoli includevano La febbre dell’oro di Chaplin, Casablanca (1942, Michael Curtiz), Angelo (1937, Ernst Lubitsch). Al contempo, le importazioni di film dall’Europa vennero limitate, e una scrematura fece sì che nei primissimi anni del dopoguerra il neorealismo italiano non facesse quasi il suo ingresso in Giappone. In particolare si evitò di introdurre Roma città aperta e Germania anno zero di Rossellini, oltre che Riso amaro di De Santis, in cui le forze di occupazione intravedevano una simpatia di fondo per le istanze comuniste (la loro proiezione fu possibile solo dopo il 1950). Alla visione ottimistica del cinema statunitense, quello italiano proponeva la commistione tra gioie e dolori della vita stessa che ai cineasti nipponici apparve come una tra le più sincere vie di espressione nella tragedia della ricostruzione post-bellica. Un effetto sortito già dal primo film italiano presentato nel 1949, Paisà di Rossellini, un grande successo di pubblico e di critica e un inevitabile invito alla riflessione come testimonia il regista ShindØ Kaneto: “Paisà ha scosso con violenza i cineasti nipponici. La sua bellezza cinematografica assolutamente inedita purificava con freschezza gli occhi di quanti erano abituati a vedere film”[1]

Le nuove produzioni autoctone:

Mizoguchi Kenji, il più anziano tra i celebri registi, inaugura il periodo di pace con una serie di opere dal forte sapore femminista (in un’accezione lirica, ma blanda dal punto di vista ideologico): nel giro di un triennio, assistiamo al ritratto di un’avvocatessa in La vittoria delle donne (JØsei no shori, 1946, con una fedele adesione alle direttive imposte dall’opera di democratizzazione); la nota attrice del teatro shingeki Matsui Sumako, al suo esordio in un periodo in cui i ruoli muliebri erano interpretati da uomini, è al centro di L’amore dell’attrice Sumako (Joyu Sumako no koi, 1947); la piaga della prostituzione in cui affonda una donna per sopravvivere, triste emergenza del dopoguerra, tinge di tragedia Le donne della notte (Yoru no onnatachi, 1948); una donna e il suo impegno politico, infine, costituiscono il motivo della trama di Il mio amore brucia (Waga koi wa moenu, 1949).

Ozu Yasujiro torna al lavoro dietro la macchina da presa nel 1947 con il film Il chi è chi di un inquilino (Nagaya shinshiroku), storia di una donna che suo malgrado si prende cura di un ragazzo orfano non desiderato al quale infine si affeziona, presto seguito da Una gallina nel vento (Kaze non naka no mendori). Ma è in particolare con il film Tarda primavera (Banshun, 1949) che raggiunge uno stile poi pressoché immutato che lo ha reso celebre nel mondo: la bellezza pura dell’attrice Hara Setsuko, un’icona di quella contaminazione tra Occidente e Oriente, tra femme fatale e purezza nipponica, e lo sguardo a livello dei tatami del regista rappresentano il fiore dell’estetica amata dai giapponesi, così come l’attenzione sulle componenti emotive e la denuncia del rischio di veder dissolti i valori delle famiglie di classe media.

Kurosawa Akira, più di tutti, dà voce a quanti soffrono, descrivendo in modo diretto e mai retorico le condizioni dei giapponesi nel dopoguerra. La sua profonda conoscenza di entrambi i mondi occidentale e orientale, inoltre, gli permette di muoversi con agio nella nuova realtà. Ben presto, nel 1951, avrebbe definitivamente dischiuso le porte della popolarità per il cinema giapponese, vincendo il Leone d’Oro a Venezia con il film Rashomon, ma già nei tre anni precedenti aveva firmato delle opere di intenso spessore. L’angelo ubriaco (Yoidore tenshi, 1948) raccontava del rapporto tra un giovane gangster e un medico alcolizzato in un quartiere-discarica di Tokyo: due personaggi posti a rappresentare, secondo due diverse misure, lo stesso tipo di ambiguità e anarchia morale del periodo. Il duello silenzioso (Shizuka naru kettØ, 1949) tratta nuovamente la figura di un medico: ha contratto la sifilide mentre operava un paziente e deve ora scegliere tra la possibilità di crearsi un famiglia -- con i rischi di trasmissione che la sua malattia comporta -- o restare tristemente solo con la propria professione. Cane randagio (Nora inu, 1949), infine, diventa un vero e proprio manifesto del periodo: un giovane poliziotto viene rapinato della sua pistola e, angosciato all’idea che molti delitti potrebbero essere commessi con i colpi che vi sono caricati, si avventura in un’odissea per le strade di quartieri malfamati, alla ricerca dell’arma. Con questo film Kurosawa rovista tra le macerie di un’umanità resa bestiale dalla recente esperienza bellica, costretta costantemente a scegliere tra due prospettive manicheistiche di bene e male, di onore e necessità, un’angoscia esplorata con tensione ritmica mozzafiato. Si tratta dunque, nei tre casi, di una società in preda a un forte disordine morale, che tenta sì di ricostruirsi dal suo interno, ma che resta a lungo allo sbando. Lo sguardo di Kurosawa, tutt’altro che politico, è soprattutto umano, il suo intento è quello di rappresentare un frammento di realtà nella sua più brutale evidenza.

E’ significativo che molti dei più alti risultati cinematografici del periodo contino in sostanza su una forma narrativa più occidentale che orientale. La tensione noir degli ultimi esempi citati, per esempio, può essere letta alla luce dei grandi titoli statunitensi degli anni trenta e quaranta; lo sviluppo dell’azione, il ritmo con cui incalza la tensione, la ricostruzione “grezza” degli ambienti (prevalentemente in esterni), la caratterizzazione asciutta dei personaggi, in molti casi sono riconoscibili per la loro matrice statunitense. Il gusto a metà tra tragedia e vaudeville con cui vengono descritte molte situazioni, del resto, permette di portare avanti nel cinema alcune istanze “a rischio” nonostante le strettoie censorie. In particolare per quanto riguarda i riferimenti alla guerra, infatti, diventava particolarmente difficile rappresentare in modo obiettivo quanto accaduto, restando diplomaticamente al margine di una qualsiasi accusa verso gli occupanti. Significativo, in questo senso, l’”incidente” (com’è stato definito) legato al film La tragedia giapponese (Nihon no higeki, 1946) di Kamei Fumio. Costituito da una serie di spezzoni di documentari girati nel corso del conflitto, indicava l’espansione nipponica in Asia e l’attacco nel Pacifico, fino alla conversione opportunistica di molti sostenitori del militarismo nell’immediato dopoguerra, narrando comunque il tutto con un commento marcatamente marxista. Alla sua uscita, l’allora primo ministro Yoshida Shigeru impose l’oscuramento della pellicola adducendo motivazioni varie, e ottenne –- si mormorò -- anche la destituzione del direttore della sezione cinematografica e teatrale delle forze di occupazione americane, David Conde, ritenuto responsabile della sua produzione.

Successi al botteghino:

Di stampo più marcatamente occidentale, un grande evento cinematografico del 1950, il film Fino al nostro prossimo incontro (Mata au hi made), era stato realizzato dal regista di Imai Tadashi, uno dei perseguitati dalla “purga rossa”. Quest’opera adattava il racconto Pierre e Luce del francese Romain Rolland, raccontando di due giovani che si conoscono in un rifugio antiaereo, si amano e condividono ideologicamente l’avversione alla guerra. Lui viene comunque inviato al fronte dove viene ucciso e lei resta vittima di un bombardamento. Attraverso questa tragica storia d’amore infangata dalla guerra, il pubblico ha modo di riconoscere il proprio disamore per la recente avanzata bellica e di soffrire per le sorti delle più giovani generazioni, il cui futuro appare ancora incerto.

A tale proposito, continua nell’immediato dopoguerra la fortuna, già degli anni trenta, del genere cinematografico dedicato ai bambini, in particolare a quegli orfani costretti a mendicare tra le macerie. Intesi soprattutto come “piccoli adulti” dall’infanzia strappata, la gestione delle loro storie poteva dar frutto a sentimentalistici ritratti tragici, ma grazie alla sapiente ricostruzione del regista Shimizu Hiroshi, già autore in passato di film a loro dedicati, i piccoli personaggi acquistano una particolare dignità. Attraverso la loro innocenza, inoltre, era possibile ribadire le condizioni del nuovo credo del popolo, costituito da un bisogno di amore e di giustizia umana, lontano dalle brutture della guerra. Nel film I bambini dell’alveare (Hachi no su no kodomotachi, 1948), Shimizu scelse come interpreti dei bambini raccolti nelle strade e ospitati a proprie spese. Effettuò le riprese in esterni con taglio documentaristico, lasciando che i piccoli interpretassero se stessi con grezza naturalità, e il risultato, molto toccante, si offriva come una forte denuncia verso la società stessa, ottenendo un forte entusiasmo dal pubblico che indusse il regista a girare il seguito I bambini dell’alveare - Seguito (Sono go no hachi no su no kodomotachi, 1951).Come lui, il regista Inagaki Hiroshi dedicò ai piccoli interpreti in particolare due opere, Bambini mano nella mano (Te o tsunagu kora,1947) e Bambini dimenticati (Wasurerareta kora, 1949), entrambi sul problema dei ragazzini ritardati e del loro difficile inserimento sociale.

Molti altri film di questi anni interpretano in modo più evidente i criteri di democrazia imposti dalle forze di occupazione. In particolare, si accelera il processo di “intimizzazione” dei film (la mancanza di contatto fisico che aveva caratterizzato fino a quel momento le storie d’amore giapponesi veniva ritenuta un retaggio feudale), e già nel 1946 appaiono le prime due pellicole con scene di baci, Giovinezza a vent’anni (Hatachi no seishun) di Sasaki Yasushi e Il bacio di una notte (Aru yo no seppun) di Chiba Yasuki, presto seguite da un crescente numero di titoli. Per offrire una visione ottimistica della vita, inoltre, venne presto importata la formula di successo statunitense del musical, in particolare a partire da Brezza (Soyokaze, 1945) di Sasaki Yasushi, storia di una ballerina e di un musicista del Teatro di Tokyo, il cui brano portante, La canzone della mela (Ringo no uta), divenne improvvisamente popolarissimo grazie alla sua carica positiva.

E’ soprattutto all’immagine femminile, tuttavia, che si affida il doppio compito di tagliare con il corredo antidemocratico del passato da un lato, e di riassumere la tipologia mista occidentale e orientale dall’altro. E’ importante cioè adombrare il potere maschile (di cui quintessenza era stato l’Imperatore) che avevo animato la spinta militarista, e allo stesso tempo offrire al pubblico femminile (quello più nutrito) una variante ottimistica e occidentale della vita, per contribuire alla ricostruzione democratica del paese. Infatti, per molti anni i film si riempiono di figure di mogli, di madri, persino di prostitute, a cui viene affidata la cura di uomini e figli potenzialmente deboli. Ben lontani dal promuovere una vera e propria rivoluzione femminista, tuttavia, questi film, tra i quali molti degli esempi già citati, e in particolare quelli di Mizoguchi Kenji, delineavano una tipologia femminile per lo più spinta da un senso di rassegnazione a subire gli eventi della vita: eroine spesso tragiche, rappresentate con tratti lirici, costrette ad accettare quanto offerto dalla vita senza assaporarne mai appieno il gusto. Si osservino, tra le tante, le protagoniste di Vita di Oharu, donna galante (Saikaku ichidai onna, 1952) e di I racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953) di Mizoguchi, o ancora quelle di Il pasto (Meshi, 1951), Madre (Okaasan, 1952) e Il lampo (Inazuma, 1953) di Naruse Mikio, per non citarne che alcune. E’ proprio questa rassegna di donne a far breccia in Occidente, legate a una lunga serie di premi ottenuti dai film giapponesi nel corso degli anni cinquanta: ben distanti dal modello occidentale così tanto auspicato, hanno per contro trasmesso per la prima volta un’estetica di vita orientale affascinante al di fuori dai confini nazionali, contribuendo anche ad affermare la cinematografia giapponese, al pari delle coeve italiana e francese, come una delle più importanti della scena internazionale.

[1] Shindo Kaneto, Nihon shinario shi, vol. II, Tokyo, Iwanami Shoten, 1989, p. 32.

Estratti da “1945-1950: Il cinema giapponese tra tradizione e Occidente”, in L'Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000), a cura di Paolo Amalfitano e Loretta Innocenti, Roma, "I Libri dell'Associazione Sigismondo Malatesta", Bulzoni, 2007, 2 voll.

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