Imamura Shohei
Imamura ha mosso i primi passi nel mondo della celluloide collaborando con registi dalla decisa impronta autoriale, soprattutto Ozu Yasujiro, Kobayashi Masaki e Kawashima Yuzo, ma ciò nonostante non ne ha subito influenze e ha invece messo a punto uno stile e un ventaglio di tematiche inediti e dall’insolita energia. Del cinema di Ozu, per esempio, ha rifiutato la sobrietà degli ambienti e la severa direzione degli attori, preferendovi la più grezza spontaneità recitativa di interpreti anche non professionisti. Tuttavia, è proprio grazie al lungo tirocinio avviato ben dal 1951 che gli è stato possibile isolare quegli elementi strutturali, stilistici e caratteriali che sapeva di voler escludere dal proprio cinema.
Già dal film d’esordio Desiderio rubato (Nusumareta yokujo, 1958), una sgangherata troupe teatrale itinerante nella provincia diventa protagonista ideale dell’umanità che più gli interessa ritrarre. Questo gruppo di personaggi comicamente — ma non ridicolmente — caratterizzati rimanda a gran parte dell’umanità di estrazione più umile del primo dopoguerra giapponese, e lo stile con cui il regista ne ritrae la vita, una sorta di mistura tra divertito voyeurismo documentario e un’appassionata descrizione a soggetto, resta fondamentalmente lo stesso in quasi tutta la sua filmografia. Imamura non tenta mai di risolvere il gap tra le tradizioni e le supersitizioni del popolo e la sfrenata modernizzazione del suo paese, sa che i due aspetti si fondono meravigliosamente nella vita quotidiana di tali personaggi, che grazie alla loro fondamentale innocenza e spontaneità le contaminazioni diventano presto nuovi motivi di tradizione, che il terreno degradato su cui si muovono, brulicante di ladri, prostitute e buoni a nulla, reimpasta i cliché senza pregiudizi morali.
L’uso del dialetto e di idiomi aspri e diretti è il medium più efficace per addentrarsi nella vecchia cultura. Rappresenta anche il linguaggio che amalgama questi semi-emarginati in branchi di persone tra loro simili. Nessuna etica locale trova spazio nella frenesia di vita, ma solo logici espedienti di sopravvivenza che giustificano qualsiasi tipo di crimine. Per descrivere tale disordine morale, Imamura si rifiuta di seguire schemi di normalità quali la linearità dell’intreccio e l’enfasi sul loro aspetto tragico, mediando con una discreta comicità gli aspetti meno gradevoli, colmando le immagini di corpi per non isolare mai un singolo personaggio dal gruppo etnico in cui è esiliato.
Degli anni sessanta, i suoi film più noti in occidente sono anche quelli che meglio riassumono l’intera poetica e l’impegno del regista. Porci e corazzate (Buta to gunkan, noto con il titolo Porci, geishe e marinai [sic!], 1961), ambientato nelle vicinanze della base militare americana di Yokosuka, racconta di una banda di yakuza che organizza un commercio illegale di carne suina da vendere agli americani. Con questa violenta requisitoria, Imamura condivide la denuncia che sempre più numerosi gli autori di cinema sollevano contro la “svendita” del Giappone agli americani. Solo un anno prima, estese manifestazioni di protesta avevano inutilmente tentato di impedire la ratifica del Trattato nippo-americano (Anpo). Il rischio temuto non aveva solo sfumature legate alla sfera economica, c’era in gioco l’identità stessa della nazione, culturalmente vulnerabile dopo lo smacco subito in guerra. I maiali del film — l’accostamento tra animali ed esseri umani, come vedremo, è quasi sempre presente nel cinema di Imamura —, sono il simbolo degli stessi giapponesi che si erano “venduti sottobanco” agli americani nel dopoguerra, e l’intera storia diventa quindi un’aperta denuncia contro l’egemonia statunitense in Giappone e contro l’opportunistica accondiscendenza dei suoi connazionali a una cultura estranea alla propria.
Cronaca entomologica del Giappone (Nippon konchuki, 1963) mette in scena i bisogni più elementari, quasi fisiologici, di una donna, chiamata a rappresentare varie generazioni femminili dagli anni venti agli anni sessanta. La protagonista Tome è una ragazza di campagna che con disincanto sopravvive alle più sgradevoli esperienze di vita, dallo sfruttamento sul lavoro all’incesto, da una maternità “animale”, senza alcun romanticismo, alla prostituzione e il carcere. Nonostante il forte ego e l’inossidabile energia, questa donna non aspira in nessun momento a poter cambiare la propria situazione, ignora qualsiasi alternativa di “riscatto morale” perché, come gli insetti, è inconsapevole dell’esistenza di una morale civile. Nel suo ritratto, riaffiorano le radici della società stessa del Giappone, gli istinti primordiali, le sopraffazioni, le contaminazioni. Soprattutto, in Tome si riassume l’ideale femminile del regista, quello di una donna prigioniera di una situazione ma non per questo rassegnata a diventare una delle tante pieghe del destino.
Sadako, la protagonista di Desiderio d’omicidio (Akai satsui, 1964), vede svilupparsi in sé la dura lotta tra dovere e desiderio. Sposata e madre di un bambino, quasi schiavizzata dal marito e dalla sua famiglia a causa della sua estrazione socialmente inferiore, un giorno viene violentata nella sua casa da un rapinatore che, ormai innamorato di lei, continua poi a perseguitarla. Nella sua triste e sottomessa esistenza si apre così uno spiraglio di speranza: la nuova relazione, seppure mantenuta segreta, le conferisce una nuova forza nei confronti del marito; allo stesso tempo, sa di poter infierire sul suo violentatore, fragile perché molto ammalato, e addirittura di poterlo uccidere. L’odio e l’amore sono per lei sentimenti dalla stessa inconsistenza, la violenza del rapinatore non è diversa da quella del marito, Sadako non conosce altro tipo di rapporto se non l’a-sentimentale sfruttamento del suo corpo. Ancora una volta, come suggerito anche dal critico giapponese Sato Tadao, nella sua immagine e nella violenza a cui viene costretta possiamo leggere anche una metafora dello stesso Giappone dopo la sconfitta, “violentato” da una cultura straniera, la stessa sfumatura del mondo della prostituzione di molti film di Imamura, tra cui Cronaca entomologica del Giappone.
Il profondo desiderio degli dei (Kamigami no fukaki yokubo, 1968), tra le opere visivamente più affascinanti del regista, è una versione moderna dei miti ancestrali ambientati nell’incontaminata natura di Okinawa, il profondo sud ancora ricco di credenze sciamaniche e superstizioni. Un ingegnere addetto a rilevare la posizione di una sorgente d’acqua preannuncia l’imminente ondata di progresso alla quale è destinata da lì a poco l’isola. Dai nativi apprende del fascino di una leggenda secondo la quale la loro isola è stata creata direttamente dagli dei, uno scenario di estrema sensualità riproposto dall’intervento di alcuni personaggi fuori dal tempo, in particolare gli incestuosi fratelli Nekichi e Uma (l’uomo e la donna reincarnazione di Izanagi e Izanami ai quali la mitologia attribuisce la creazione dell’arcipelago giapponese) e la minorata e ninfomane figlia di Nekichi, simbolo della purezza d’animo prima della contaminazione della civiltà. Il film si è purtroppo rivelato un insuccesso di cassetta alla sua uscita, e per Imamura è seguito un difficile periodo: fino al 1979 non gli è stato più possibile realizzare un film a soggetto.
Varie esperienze colmano la lacuna in questo decennio, a cominciare dalla fondazione di una sua scuola di cinema e di televisione a Yokohama. Oltre ad alcuni speciali reportage televisivi dedicati in particolare ai vecchi soldati che avevano preferito non far ritorno in Giappone dopo la fine della guerra, Imamura si dedica in questi anni alla realizzazione di due importanti documentari che gli permettono di esplorare una tragica pagina della storia nazionale, quella avviata a partire dal secondo conflitto mondiale, attraverso gli occhi di due donne. Il primo, La storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista (Nippon sengoshi - Madamu Onboro no seikatsu, 1970), raccoglie le confessioni di una barista dal passato segnato dalla prostituzione sul filo delle sue esperienze vissute dalla fine della guerra agli anni settanta, mentre il secondo, Karayuki san - Donne che vanno lontano (Karayuki san, 1973), svela l’orrore della vita di alcune donne sottratte alle loro famiglie in gioventù e inviate nelle colonie giapponesi, in questo caso a Singapore, per prostituirsi per le truppe. L’ambito del documentario non è nuovo per il regista, che già nel 1967 aveva realizzato una delle opere più importanti della sua filmografia: Evaporazione dell’uomo (Ningen jØhatsu) narra la vicenda di un uomo scomparso nel nulla mentre si tenta di definirne vita e peculiarità caratteriali, una specie di punto d’avvio per concentrarsi in realtà su quanti hanno avuto relazioni con lo scomparso. Un intervistatore, l’attore Tsuyuguchi Shigeru, avvicina tra gli altri la fidanzata dell’uomo svanito e tenta con lei di comprendere i motivi che hanno causato l’”evaporazione” dell’uomo. Gradualmente, però, la donna è sempre meno interessata al fidanzato e sempre più attratta dall’intervistatore, inconscia di essere spiata da una macchina da presa. Quando è del tutto evidente che l’inchiesta è destinata a fallire e, per analogia, che la scomparsa dell’uomo non ha in realtà un gran significato neanche per quanti gli hanno vissuto accanto, la finzione cinematografica — come già lo stile e il tipo di narrazione non distanti dai film a soggetto del regista — prevale del tutto e nel finale le pareti dello stage cadono per rivelare la macchina da presa e l’intera troupe.
Nel 1979, La vendetta è mia (Fukushu suru wa ware ni ari) riconferma l’interesse del regia per i motivi che spingono al crimine. Si tratta del ritratto di un assassino desunto da un’inchiesta per molti versi simile a quella condotta in Evaporazione dell’uomo: in questo caso, l’uomo sembra aspirare a un’”evaporazione” senza riuscirvi mai. Cancellare, anche se con il crimine, le tracce che lascia della propria identità, diventa l’unico apparente movente dei suoi assassinii. Il corpo e l’istinto si muovono in lui all’unisono e, dato che ne è conscio, comprende che l’unico modo di porre fine alle proprie azioni è consegnarsi da sé alle autorità. La descrizione di Imamura è quanto mai realistica e il suo occhio coincide sempre più con quello di un entomologo: i rapidi e variati movimenti di macchina, la distanza oggettiva dal personaggio, l’assenza di elementi superflui e l’a-sentimentale, giornalistico approccio alla cronaca degli omicidi presenta il crimine per quello che è, niente più che il risultato di un istinto.
A La vendetta è mia seguono quattro opere ambientate nel passato, e soprattutto le prime tre ripropongono la ricerca delle radici culturali e sociali del Giappone. Con Che cosa ce ne importa (Eejanaika, 1981), sul biennio 1866-67, Imamura ha dichiarato di voler “osservare come le masse vivevano, agivano, pensavano e morivano idolatrando la libertà, alla fine dello shogunato Tokugawa, in una situazione difficile simile a quella che esiste oggi”. I personaggi appartengono ancora una volta agli ambienti più malfamati e utilizzano il corpo per sopravvivere senza soffermarsi in smanie etiche. Il titolo del film è una sorta di slogan per le loro esistenze effimere, destinate a non lasciare nessuna traccia nella Storia.
Con la stessa crudele opacità scorrono anche le esistenze dei personaggi del successivo La ballata di Narayama (Narayama bushikØ, 1983, Palma d’Oro al Festival di Cannes), un soggetto basato sull’omonimo romanzo di Fukazawa ShichirØ già realizzato nel 1958 da Kinoshita Keisuke. In questo film si ripropone con realismo la tragica e semi-leggendaria usanza del passato di abbandonare i vecchi su un monte per lasciarli morire quando non siano più in grado di lavorare, cioè di produrre nella macchina di sopravvivenza del villaggio. Orin, prossima al settantesimo compleanno, si prepara a seguire la triste consuetudine nonostante la reticenza del figlio. Ai personaggi viene dedicata la stessa attenzione prestata allo scorrere delle stagioni, alla natura e ad animali e insetti. Qualcosa di grande e di indefinito regola con impassibilità le leggi di questo mondo, e al suo interno ciascuno ricopre il ruolo che gli è stato assegnato con meticolosa dedizione — per chi tenta di resistere a quest’assurdo destino esiste sempre una sorta di pena da scontare.
Il mezzano (Zegen, 1987) ci riporta agli inizi del Novecento, illustrando nella forma di un’insolita cronologia estesa per un periodo di quarant’anni alcuni dei principali mutamenti avvenuti nel passaggio tra le tre ere Meiji, TaishØ e ShØwa, e concentrandosi nuovamente sul mondo della prostituzione e sui livelli più infimi della società. Un carnevale di colori e di forme animano i quartieri di questa gente, scorrono tra loro, ancora una volta, quei risvolti della Storia che nessuno documenterebbe. Imamura conclude apparentemente con questo film il ciclo di opere dedicate allo studio delle origini del suo popolo: nelle opere che seguono, sono soprattutto i tentativi di legare la propria esistenza ad altri che costituiscono il fulcro delle sue “inchieste”. In bianco e nero e innestate lungo un pacato flusso narrativo, in Pioggia nera (1989, da un romanzo di Ibuse Masuji) scorrono le immagini della peggiore tragedia di cui il popolo giapponese sia mai stata vittima: l’esplosione atomica. La devastazione, i corpi malformi, le morti, vengono tutti concentrati in una rosa di quadri che in successione si aprono e si sottraggono allo sguardo nei primi minuti del film, lasciando un segno agghiacciante su quanto accadrà in seguito. In realtà, obiettivo dell’autore non è tanto ritrarre i momenti di maggiore paura, quanto documentare quel sottile e costante terrore che negli anni ha oppresso le persone sottoposte alle radiazioni. Al timore della contaminazione fisica, si aggiunge l’orrore di essere discriminati dai più fortunati, la tristezza di non poter contare su un futuro, e soprattutto la perdita della ragione. Il regista sa osservare questo mondo senza pietismi, seppure toccando alcune delle corde più drammatiche dell’episodio.
Un altro lungo periodo di silenzio segue Pioggia nera: la crisi produttiva in Giappone lascia sempre meno spazio a progetti “ambiziosi”, come vengono ritenuti quelli di maestri del calibro di Imamura, Oshima e Kurosawa. E’ il 1997 quando un nuovo titolo nella filmografia del regista viene selezionato per il concorso di Cannes e vince infine la Palma d’Oro. L’anguilla (Unagi) racconta di un uomo in libertà condizionata dopo otto anni dall’omicidio di sua moglie sorpresa con un altro uomo, e prosegue narrando di come questi tenti di rifarsi una vita in un villaggio lavorando come barbiere. Nuovamente alle prese con un crimine, l’assassinio, Imamura ritorna all’analogia tra uomini e animali (qui l’anguilla di cui il protagonista è insolitamente amico) per spiegare il gesto del protagonista come la conseguenza del suo istinto. L’istinto regola anche il rapporto tra i vari personaggi e l’instancabile “Dottor Fegato” del successivo Il dottor Akagi (KanzØ sensei, 1998, da un’opera di Sakaguchi Ango), opera intensamente soffusa di poesia. L’ultima fatica di Imamura, Acqua tiepida sotto un ponte rosso (Akai hashi no shita no nurui mizu), è del 2001. Presentata a Cannes, aveva fatto sperare in una terza Palma d’Oro per il settantaquattrenne regista, speranza purtroppo delusa. Infaticabile autore, la sua opera resta indubbiamente tra le più importanti della cinematografia non solo giapponese, ma del mondo intero. Non solo ha costituito per quarant’anni un esempio di stile per varie generazioni di cineasti, ma grazie alla sua scuola ha forgiato anche nomi oggi molto noti della più contemporanea scena registica nipponica, tra i quali Miike Takashi. Con Oshima Nagisa e Suzuki Seijun, Imamura Shohei è stato uno degli autori che più hanno contribuito alla svolta decisiva nella produzione d’arte del proprio paese.
Da "UOMINI D’ISTINTO, in Il cinema di Shohei Imamura, a cura di Guy Borlée e Rinaldo Censi, Bologna, Ente Mostra Internazionale del Cinema Libero - ONLUS, 2001, pp. 5-14