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Kawase Naomi: i primi cortometraggi

Il cinema di Kawase Naomi è una sinfonia di sensazioni. Un millennio prima di lei, altre donne, in Giappone, hanno dato corpo in letteratura a un analogo amalgama di emozioni, annotando il flusso dell'esistenza sull'onda di un disordine emotivo che è proprio della vita stessa, con uno stile che traduce in tempo reale i sentimenti ed è perciò definito zuihitsu, "che segue il pennello". Tra le mani di Kawase, la macchina da presa si muove sinuosa, a tratti più incisiva, altre volte volatile, proprio come la punta di un pennello impegnato nella scrittura di un ideogramma.

Sono fondamentali, nella sua formazione, i primi anni dell'infanzia: dopo la separazione dei genitori (sua madre aveva deciso di allontanarsi dal marito perché preoccupata delle sue attività di yakuza, come la stessa Kawase ci informa nella nostra intervista), Naomi viene allevata dai suoi prozii, un'anziana coppia senza figli che la educa con grande affetto e che lei ama chiamare "nonni". Da loro eredita dunque una memoria del passato -- del Giappone, della propria famiglia, della mitologia che impregna la terra -- incastonata ormai con naturalezza nella visione entusiastica, dalla curiosità quasi infantile, con cui esplora il mondo a lei contemporaneo. Importante anche che Kawase venga allevata a Nara, la più antica tra le capitali del Giappone, la città sorta sul regno di Yamato, all'origine stessa della storia del suo paese. Immersa in una natura tuttora quasi incontaminata e costellata da antichi templi dal profondo richiamo spirituale, Nara resta oggi una delle aree del Giappone che più sfuggono alla nostra pletora di luoghi comuni perché ben distante dal caotico assetto tecnologico delle grandi metropoli. Questo spiega l'agilità con cui il suo cinema si snoda negli ambienti naturali, ma anche quell'autentico stupore che la regista mostra di provare quando entra in contatto con le opere della civiltà umana.

I primi passi nel cinema le servono per tastare la materia filmica e dare in abbozzo una parziale collocazione alle sue emozioni. Con Metto bene a fuoco ciò che mi interessa e La concretizzazione delle cose con cui tento in tutti i modi di mettermi in contatto, due brevi cortometraggi del 1988 dedicati ad alcuni scorci cittadini e alla gente che li anima, Kawase recupera volti e oggetti che di solito la distrazione ci fa disperdere nel quotidiano. Si tratta di gente che parla, che cammina, o in alternativa dei cartelli stradali che ne regolano i movimenti, e ancora di persone al lavoro, della "nonna" che accarezza un fiore: un pot-pourri di soggettività che si complementano in armonia lungo le strade, tra le auto, seppure ciascuna isolata dal più ampio contesto. Soprattutto nel secondo film, Kawase tenta un approccio voyeuristico al soggetto quando il suo sguardo è rivolto ai senzatetto, ma il risultato è una rosa di immagini -- di nobiltà, pudore, tenerezza -- di cui lei sembra non poter far altro che diventare parte attiva. In alcuni istanti si ha la sensazione che l'obiettivo sia per lei insostenibile, incandescente, quasi come se rischiasse di violentare se stessa e il suo personaggio, e quindi timidamente se ne allontana, volgendo lo sguardo altrove.

Già in questi due primi cortometraggi, ricorre ad alcune sequenze-tampone, perlopiù attinte dalla natura, che utilizza poi in tutto il suo cinema per ridonare organicità alla frammentazione dello spazio: si tratta quasi sempre di particolari di piante, di fiori o di quant'altro appartenga alla natura (in Metto bene a fuoco anche della scritta "sakura" - "fiore di ciliegio", il nome di una compagnia di taxi), in grado di cristallizare parzialmente il tempo come in un freeze frame e saldare tra loro i movimenti senza scarti temporali. Il movimento che Kawase predilige è tuttavia quello segnato dall'alternanza generazionale nella storia dell'uomo: bambini e anziani, a partire da questi due primi esempi, sono protagonisti inconsapevoli dell'imperturbabile progresso dell'umanità, una ciclicità inarrestabile che ricalca quella della natura stessa. Tra i due estremi, Kawase indaga quindi sul passaggio dall'adolescenza all'età matura girando My J-W-F (1988), un breve film dedicato allo sbocciare di una donna, all'insegna del triplo slogan "Jump-Want-Fly", ancora un movimento, questa volta di introiezione, in rapporto al mondo esterno. Come per le immagini tratte dalla natura, in questo caso sono gli oggetti del quotidiano a offrire la caratura del personaggio: piatti, banconote, un rossetto, uno specchio mandato in frantumi, sono tutti segni disseminati in un paesaggio universale e ageografico, un prato anonimo senza alcun riferimento culturale rinfrancante.

L'occasione di misurarsi apertamente con se stessa le giunge da un compito assegnatole nella scuola di fotografia che frequenta a Osaka: alla richiesta di focalizzare un aspetto della propria vita che ritenga "inevitabile", Kawase affonda le mani nel suo passato più dolente, portando a galla l'immagine del padre da cui si è separata da molto tempo. Comincia dunque con Il gelato del papà ( 1988) il percorso, poi alla base della trilogia In un abbraccio-Katatsumori-Kyakarabaa, alla ricerca del genitore e, di riflesso, della propria identità. In questo cortometraggio, Kawase stessa interpreta il ruolo di una giovane donna che entra in un bar sapendo che il gestore è suo padre: un fiocco rosso tra i capelli è l'unico strumento a disposizione dell'uomo per intuire che si tratta della figlia, ma una volta instaurato il contatto, la conversazione tra i due ricalca quella che ipoteticamente avviene a ogni fine giornata tra genitori e figli. Il padre, in questa fase, è per Kawase ancora un'immagine altamente idealizzata. Il film le serve per proiettare la speranza che lui possa provare geneticamente dell'affetto per lei, una sicurezza che poi sarà costretta a sgretolare, come vedremo, nel corso delle riprese di In un abbraccio.

La mia famiglia, una persona sola (1989), il primo ritratto dedicato a sua "nonna", si conclude con un cartello su cui Kawase scrive: "visto che c’era di mezzo la macchina da presa, il rapporto tra me e mia nonna era un po’ diverso dal solito". Questa frase suggerisce un ulteriore strumento di lettura del suo cinema: ciò che le interessa ritrarre, parrebbe, non è certo la realtà in quanto tale, ma piuttosto quell'anomala parvenza di reale che la stessa macchina da presa è in grado di plasmare. Non è dunque importante ritrarre la "nonna", quanto invece riuscire a sintetizzare l'anziana donna e Kawase come unica entità. Il loro comportamento in quell'istante sarà quindi soggetto alla finalità stessa dell'incontro, cioè alla realizzazione di un film. Quest'idea di verità indotta sarà alla base anche del più recente film di Naomi, dedicato all'incontro tra lei e l'amico Nishii, in cui le due identità danno corpo a un unicum immaginifico esplorato attraverso il duplice obiettivo delle macchine da presa e fotografica.

La prima scena di Ricordi del vento, un documentario che Kawase gira pochi anni dopo, si apre con un ticchettio d'orologio e la sua voce off che constata: " Il tempo, secondo dopo secondo, mi passa davanti accelerando dalle mie spalle. Le cose che non posso toccare con le mie mani e tutto ciò che non posso vedere con i miei occhi, si accumulano nei singoli momenti della mia vita. A volte ne ho una gran paura. Allora mi arrotolo su me stessa, cerco di farmi più piccola possibile e mi addormento. E quindi arriva il mattino. Io indubbiamente sono viva, ma in altri luoghi vengono vissute molte altre vite. Io queste vite continuo a osservarle, e così, guardando tutte insieme le persone che lì vivono... l'oggi… l'adesso… questo istante, mi passa davanti." L'incedere del tempo è dunque per Kawase un motivo insieme di ansia e di aspettativa. In più occasioni tenta di afferrarne il ritmo, come accade nella rapida apoteosi della natura sviluppata nell'arco di una giornata nel cortometraggio Adesso, (1989), rendendo il suo senso di nostalgia per quanto vive nel presente ma è effimero nel corso dell'esistenza. Il tempo è in grado di mutare anche il destino umano, una proposta del successivo Una piccola grandezza (1989): Kawase interviene però in questo caso interferendo con la "finzione" cinematografica, e attraverso la ripetizione di un'analoga scena presentata con un'unica variante (cioè che lo studente sieda o meno al suo banco), prospetta per il giovane protagonista di questo film due distinte opzioni di vita, due destini differenti.

Il pane delle dee (1990) e Felicità presunta (1991) segnalano un periodo controverso della vita di Naomi. A cavallo tra la fine dei suoi studi e l'avvio di una vita professionale, i due cortometraggi sono l'evidenza del suo travaglio interiore, laddove il primo descrive la paura di un futuro di omologazione sociale, in una glassa di "felicità comune", e il secondo sottolinea che la felicità in sé è finzione, e che quindi sia possibile simularla e ricrearla in ogni istante della vita. I due film servono comunque a riproporre una visione introspettiva della propria identità, che diventa, a distanza di un anno, il punto di partenza per il viaggio -- interiore oltre che fisico -- alla ricerca del padre intrapreso con In un abbraccio.

Kawase considera oggi quest'ultimo film del 1992 come il primo passo davvero importante nel suo cinema. In molti sensi, dimostra infatti di saper manovrare con fermezza le briglie della tensione narrativa e stilistica, manipolando quella materia difficile che è la propria esistenza. Interviene così in prima persona nelle immagini con parti del suo corpo per segnalare il percorso della strada ipoteticamente “sbagliata” che aveva rischiato di vivere con i suoi genitori naturali, in rapporto alla già positiva vita che ha costruito con la "nonna". In questo momento, quindi, capisce di dover abbandonare il sogno (l’idealizzazione del padre di Il gelato del papà) per far proprio ogni istante della propria infanzia e liberarsi di una pesante vacuità. Partita alla ricerca del padre, ne segue le tracce spostandosi di luogo in luogo, lì dove l'uomo ha abitato in tutti quegli anni. Mentre esplora le città -- unica vera mappa: una serie di fotografie della propria infanzia --, a ogni "ritrovamento" fa coincidere una tappa della sua crescita. Il ritmo di questa lettura/crescita gradualmente si accelera, la vita evidentemente la distrae sempre più dalla mancanza del padre. Della sua presenza sembra rendersene conto solo davanti allo specchio, quando nei propri lineamenti crede di identificare le tracce di chi l'ha messa al mondo. Una ricerca che rappresenta in sé un nuovo momento di crescita, ovattato da una generale luminosità, in netto contrasto con i tramonti che adombrano le due telefonate al padre e alla madre.

Da questo momento, il "movimento" nel suo cinema avviene soprattutto in senso orizzontale: qualsiasi evento, nel suo progredire e regredire, si arricchisce sempre di nuovi elementi, per quanto impercettibili. E' il tema di Luna bianca (1993), ma ancor più nella nuova ricerca della propria identità messa in scena in Katatsumori (1994). In questo film, la sensazione è che la strada scelta, rispetto a In un abbraccio, sia quella che la lega alla "nonna". E' a lei che sono dedicate le immagini della natura, alle sue mani mentre mette in sede i semi, coccola le piante, le strattona un po' severa quando non siano a posto, riproponendo quindi in metafora l'intervento di un genitore in grado di forgiare un individuo e far sì che diventi un adulto buono o meno. Così come in In un abbraccio la comunicazione con i genitori naturali avviene a distanza, attraverso un telefono, anche in questo caso il rapporto con la "nonna" è volutamente velato dall'interferenza di un vetro, o dalla proposizione della sua immagine attraverso gli oggetti che la connotano. La "nonna", protagonista anche del successivo Hai visto il cielo? (1995) in cui, con una punta di rammarico, si chiede perché la tartaruga sia stata scelta dal creato come l'animale più lento, avverte a sua volta la tirannia del tempo che, se da un lato permette ai suoi frutti di germogliare, dall'altro allontana da lei Kawase (i due compleanni di Naomi inglobano un intero anno di natura).

Ancora una volta, il tempo è protagonista nel successivo documentario Ricordi del vento (1995), come abbiamo già avuto modo di notare, insieme a una nuova proposizione del tema dell'identità: "Mi piace il mio nome, o meglio, voglio essere chiamata con il mio nome, non con 'tu'; voglio che tutti capiscano che io esisto", Kawase dice nel corso della sua lunga telefonata, mentre nelle immagini connota e nomina ciascun individuo attraverso i singoli oggetti che i vari personaggi barattano con lei. Un esperimento che culmina nel successivo Questo mondo (1996), dove la definizione della propria identità sembra scatenare una catena di piccole implosioni nelle persone a cui la regista chiede di pronunciare -- lo sguardo fisso in macchina -- il suo nome: Kawase Naomi. La stessa struttura dello scambio epistolare in video tra Kawase e Koreeda Hirokazu, un esperimento che già in passato il regista Terayama Shuji e il poeta Tanikawa Shuntaro avevano adoperato con uguale incisività[1], le permette di osservare attraverso la "risposta" del co-autore l'impronta lasciata dalla propria identità in presa diretta.

Nel 1997, a un anno di distanza da Questo mondo e da un nuovo omaggio alla nonna (e alla luce) offerto in Tramonta il sole (1996), Kawase è pronta per il suo progetto più ambizioso. Coadiuvata dalla splendida fotografia di Tamura Masaki, l'opera Suzaku vince la Caméra d'Or a Cannes e segnala la sua autrice alla più ampia attenzione internazionale oltre che autoctona.

[1] Si tratta del film Video Letter, 1983.

Estratti da "Kawase Naomi - I film, il cinema," a cura di Maria Roberta Novielli, Torino, Effatà Editrice, 2002

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