L'opera wagneriana e il cinema giapponese
L’opera teatrale occidentale, e in particolare quella wagneriana, ha avuto già dagli inizi del XX secolo un forte impatto tra le fila di intellettuali giapponesi. La teoria wagneriana sul teatro totale raggiunse infatti in pochi anni alcuni studiosi, filtrata soprattutto dalle contemporanee fonti inglesi che giungevano nell’Arcipelago. In particolare lo scrittore, critico e drammaturgo Tsubouchi Shōyō[1] aveva accennato al dramma musicale (musik drama, in giapponese gakugeki) nella sua opera Shingakugekiron (Theory of a New Music Theater, 1904) sottolineandone l’importanza raggiunta in Europa e offrendolo come modello per un nuovo tipo di dramma in Giappone: secondo la sua teoria, le forme tradizionali teatrali giapponesi, cioè nō, jōruri e soprattutto kabuki, avrebbero dovuto effettuare un superamento dei loro codici, inglobando e fondendosi con quelli della danza, seppure conservando una propria specificità culturale, senza cedere alla tentazione della pura imitazione.
Negli stessi anni, Osanai Kaoru, tra i principali fautori della riforma teatrale in direzione occidentale[2], nonché uno dei protagonisti della cinematografia nipponica nei primi anni Venti, partendo in particolare dall’opera dell’inglese Edward Gordon Craig ipotizzò la sua teoria di teatro totale prossima a quella wagneriana. Per approfondire i suoi studi aveva anche intrapreso un viaggio in Europa a cavallo del biennio 1912-13, nel corso del quale aveva fatto tappa anche a Berlino, dove ebbe modo di collezionare cartoline dell’opera wagneriana, tuttora conservate presso l’Università Keio di Tokyo.
Il concetto wagneriano di Gesamtkunstwerk trovava in Giappone il suo terreno più fertile, soprattutto nell’ambito teatrale e nel figlioccio cinematografico di neonata formazione. La sintesi tra musica, drammaturgia e arti figurative era già insita nella cultura prevalentemente ideogrammatica di questo popolo, sempre incline a considerare le differenti forme artistiche come unicum creativo[3]. Si pensi per esempio al proscenio del nō: la “scrittura” offerta dalla simbologia scenografica e dalla sua parcellizzazione in icone di senso, abbinate alla sintesi musicale e poetica, oltre che ai movimenti in scena ridotti alla loro quintessenza, permettono di amplificare esponenzialmente tutti i loro sottotesti e fonderli armoniosamente tra loro. Opera che si presta dunque a essere fruita con tutti i sensi, creando un infinito percorso di link multimediali, in cui ciascuna forma artistica cede una parte del suo potere a favore dell’altra, producendo nuove possibilità percettive.
Il cinema, ça va sans dire, integra armoniosamente il concetto wagneriano di arte totale in molte sue pellicole, ma è soprattutto tra le mani di uomini dalla visione di arte totale che ha prodotto risultati maturi di fusione tra arti. Nell’ambito giapponese lo sperimentalismo del ventennio 1960-70 ha prodotto alcuni risultati liminali in questo senso, permettendo esercizi creativi estremi, ma i prodromi affondano già nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta, quando si tentano le prime fusioni tra arti. Nel 1947, su ispirazione di analoghi movimenti europei, in particolare di impronta surrealista, si era formato il gruppo Yoru no kai (Società della notte), con spirito analogo alla teoria di arte totale wagneriana. Nelle parole di Hanada Kiyoteru, uno dei suoi fondatori:
“So what is the original meaning of the avant-garde spirit? It is a spirit that both always demolishes and always creates; a spirit that advances headlong while enduring solitude; a spirit that treads on opportunity and repels the favourable. Without compromising, without being content, without being satisfied—a spirit that, were it to reach a height, would once again descend head first toward the bottom of the valley. That is to say, in a word, it is the spirit of revolution.”[1]
Tuttavia, questo tentativo da lì a breve fallì, poiché ciascuno dei membri presto si era concentrato sulle rispettive aree creative. Pochi anni dopo, un nuovo gruppo chiamato Seiki no kai (Società del secolo) tentò nuovamente la conciliazione tra le varie arti. Tra i fondatori c’era lo scrittore Abe Kōbō, e presto si unì anche il futuro regista Teshigahara Hiroshi, figlio del fondatore della scuola di ikebana Sōgetsu (Teshigahara Sōfu), oltre al compositore Takemitsu Tōru. I membri del Seiki no kai tentarono di percorrere trasversalmente tutte le sfere artistiche in un importante ibridismo di generi, pubblicando i risultati delle loro sperimentazioni in una serie di libretti intitolati Seikigun in cui la teoria del Gesamtkunstwerk wagneriana trovava pieno compimento attraverso gli apporti di musica, dramma, immagini in movimento, poesia e narrativa.
In breve, sul solco di queste prime sperimentazioni si avviarono nuove forme ipertestuali. Sempre nell’ambito della famiglia Teshigahara nacque nel 1959 la “Sōgetsu Art Center”, con l’intento di stimolare la nascita di nuove forme artistiche, partendo dalle preesistenti. Il centro contava attività cinematografiche, musicali, teatrali e letterarie, portando a maturazione il concetto di arte totale applicata ai precedenti artistici tradizionali. Alla guida del centro ancora Teshigahara Hiroshi, cresciuto in un clima multimediale da cui aveva tratto varie lezioni, in particolare l’idea di “arte totale” trasmessa dal pittore e scrittore Okamoto Tarō, sulla base di quanto questi aveva appreso durante il suo lungo soggiorno europeo degli anni Trenta: arte come risultante di una serie di relazioni conflittuali tra ambiti differenti, attraverso le quali definire un nuovo concetto di realtà.
Un caso di distribuzione di particolare successo fu rappresentato da un titolo coprodotto con la major Tōhō, cioè il film Yūkoku (Patriottismo, 1966[4]), che lo scrittore Mishima Yukio adattò, interpretò e diresse a partire da un suo breve e omonimo racconto del 1961.
Ispirato agli eventi del cosiddetto niniroku jiken (il tentativo del 26 febbraio 1936 di effettuare un colpo di stato da parte di un gruppo di ufficiali dell’Esercito Imperiale), il film si svolge nel corso dell’ultima notte dell’ufficiale Takeyama e di sua moglie Reiko. Proprio in considerazione della relazione del giovane con sua moglie, i suoi colleghi ufficiali l’avevano tenuto all’oscuro del progetto di rivolta, ma il Tenente decide comunque di uccidersi per onorare il suo ruolo. Reiko, prima testimone necessaria del suo ultimo gesto, si toglie a sua volta la vita, anche questo un rituale dovuto per la moglie di un ufficiale.
Wagner è protagonista in Patriottismo attraverso la colonna sonora che lo omaggia (il Liebestod tratto dal Tristano e Isotta), oltre che per la messa a punto di un Gesamtkunstwerk che si avvale di codici classici affini all’originale ideale del compositore. Tra le tante affinità, quella iconografica: Mishima era ossessionato da alcuni miti dell’antica Grecia e dalla loro valenza universale, quindi riproponeva spesso alcuni stilemi di quella cultura, persino nella sua vita privata di cui curava maniacalmente l’immagine. Basti pensare alla sua casa in stile occidentale, addobbata da statue apollinee, ma soprattutto alla cura maniacale del corpo, modellato a partire da icone greco-classiche[5], per evocare un simbolismo prossimo alla sua concezione di “erotismo strettamente connesso alla morte violenta”, come dimostra la sua famosa immagine prestata al fotografo Shimoyama Kishin per la rappresentazione del martirio di San Sebastiano (1966), in cui il suo corpo denudato, legato e trafitto da frecce, rappresenta tuttora un’icona della sua intera opera.
Come Wagner, era consapevole della possibilità di dare forma a una nuova arte portando su schermo ogni strumento vitale di singoli ambiti artistici che fosse in grado di contribuire alla formazione di una nuova narrativa. Patriottismo usufruisce al contempo di codici cinematografici, pittorici, teatrali, poetici. Virato in bianco e nero per accentuare il dècor proscenico di matrice buddhista e del teatro nō, divide la narrazione in capitoli con cui la narrazione amplifica gradualmente le sue componenti di eros e thanatos, dilatando i tempi della passione e quelli della morte. Sullo sfondo della scena di questo rituale, prevale l’immagine di un’unica parola in ideogrammi, shisei (dalla doppia connotazione di “sincerità” e “devozione”), cui si lega la sostanza narrativa del film: il tenente affronta la sua missione di morte, la moglie è pronta a sacrificarsi per l’ideale del marito. Deve dunque trattarsi di una morte “perfetta” dal punto di vista rituale e soprattutto estetico, che esalti la bellezza nel momento del suo massimo splendore, senza deturparla, un effetto ottenuto soprattutto attraverso le spennellate di nero (l’ideogramma, il sangue, i capelli sciolti durante l’amplesso) su scene candide attraversate da fasci di luce.
La scelta del sottotesto wagneriano rappresentava per Mishima anche un segno della sintesi tra le culture tedesca e giapponese, eco di un grandeur cui ancora nostalgicamente aspirava. Si trattava anche di un’esigenza di ordine commerciale, oltre che ideologico, poiché Mishima in quegli anni lavorava intensamente per accrescere la propria popolarità in Occidente. Infatti, la première di Patriottismo fu programmata a Parigi, occasione durante la quale lo scrittore poté rilasciare varie interviste utili ad accrescerne la popolarità, e il film stesso fu preparato dal suo autore in differenti versioni linguistiche (inglese, tedesco e francese, oltre che giapponese), i manoscritti nei differenti idiomi scritti di suo pugno.
Infine, la scelta di portare in scena la passione deragliante dell’amore e l’estetica della morte che lega i due protagonisti attraverso il segno di moderni Tristano e Isotta accentuava ogni valenza erotica e allo stesso tempo spirituale della coppia, oltre a ricordare la stessa fascinazione che Wagner in tarda età aveva provato per il buddhismo. Colpisce la meticolosità con cui Mishima ha composto ogni movimento dei due corpi, affinché risultassero una traduzione diretta in immagini della sinfonia wagneriana. La versione scelta (tra i dischi collezionati dallo stesso scrittore) è quella del 1932 arrangiata da Leopold Stokowski con la Philadelphia Orchestra, in grado di corredare lo sviluppo del film — insieme agli inserti “didascalici” rappresentati da rotoli scritti che si aprono sulle scene a guidare la narrazione.
Tra le produzioni cinematografiche di Terayama Shūji, i cortometraggi rappresentano le punte massime e la traduzione più immediata delle sue poesie. Tra questi è impossibile non identificare elementi (spesso in forma provocatoriamente antitetica) del Gesamtkunstwerk wagneriano. Basterà riferirsi al film Tomato Ketchup Kōtei (L’Imperatore Tomato Ketchup, 1971), originariamente realizzato in una versione di 76 minuti, poi tagliata e divisa in due parti, di cui la prima, di 28 minuti, conserva lo stesso titolo, e la seconda, rentitolata Janken sensō (La guerra del janken, cioè una morra giapponese), di 12 minuti. Attraverso una partitura musicale anche Wagneriana, Terayama descrive un sistema sociale di soli bambini che, dopo aver sovvertito il potere degli adulti, regnano sull’onda di giochi “innocenti” e sadici perpetuati ai danni degli adulti oppressori. I giovani protagonisti sono destinati a diventare gli adulti del domani, ripristinando un medesimo sistema di leggi. Varano infatti una Costituzione, al cui interno le scelte capitali vengono effettuate con il janken (la morra). Al di là dell’apparente anarchia di questa nuova società, viene definendosi un Impero retto da estremismi di destra, identificati da Terayama con precedenti nipponici e tedeschi, come suggeriscono anche le didascalie in lingua tedesca sovrimpresse sulle immagini.
Tra gli animatori e fumettisti più celebri del Giappone, Matsumoto Leiji ha dedicato varie opere a Wagner, compositore di cui ammira l’opera più che l’ideale di Gesamtkunstwerk. Una passione evidente soprattutto nell’adattamento dell’opera di mitologia norrena in Hārokku Sāga Nīberungu no yubi wa (Harlock Saga – L’anello dei Nibelunghi, 1999), di cui lo affascina l’utilizzo del mito come strumento per ordinare la realtà, come dispensatore di verità. Per questo la saga propone negli spazi stellari i miti germanici legati a personaggi di fantasia, non come monolitico, ma piuttosto come entità policentrica, che proprio in quanto tale può attingere da diverse forme d’arte per la sua rappresentazione.
[1] 1859-1935: tra i protagonisti della modernizzazione della letteratura giapponese in periodo Meiji.
[2] Osanai Kaoru (1881- 1928) è stato con Ichikawa Sadanji II il fondatore del Teatro Libero (Jiyū gekijō) nel 1909. Sarebbe stato, in seguito al suo soggiorno europeo, fortemente influenzato dalle opere di Edward Gordon Craig, Constantin Stanislavski e William Archer.
[3] Si pensi per esempio alle arti del guerriero legate dal codice bunbu ryodō (combattimento e cultura), cioè i codici di addestramento samuraici che presupponevano la conoscenza di ogni forma artistica, dalla musica alla calligrafia e la poesia, da abbinare all’abilità alla spada.
[4] Il titolo Patriottismo (che in giapponese è in realtà aikoku) non traduce in effetti l’originale Yūkoku, parola che rappresenta una sfumatura in più, includendo un senso di empatia per lo stato del proprio paese.
[5] Di grande e calcolata riuscita era stata anche la sua apparizione come “modello” per Ordalia delle rose (Barakei), la celebre opera fotografica di Hosoe Eiko, che ne esaltava il feticismo fisico con sfumature sadomasochistiche.
[1] Citazione tratta da Yuji Matson, The Word and The Image: Collaborations between Abe Kôbô and Teshigahara Hiroshi, con riferimento a Sekine Hiroshi, Haneda Kiyoteru: Nijû Seiki no Kodokusha (Tokyo: Riburopôto, 1987), 116. Il riferimento completo da cui è tratta la citazione è al link: http://dspace.library.uvic.ca:8080/bitstream/handle/1828/301/The%20Word%20and%20The%20Image.pdf;jsessionid=03CDD94DCF6B081FA2DDC5D5354CE587?sequence=1, p. 28.
Estratti da "Die Kunst des Übergangs - Japanische Avantgarde und die Idee des Gesamtkunstwerks" , in Wagner Kino - Spuren und Wirkungen Richard Wagners in der Filmkunst, Hamburg, Junius Verlag, pp. 100-109