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Shojo (Okuda Eiji, 2001)

Shojo è un film dedicato alla perdita della giovinezza. I personaggi in scena appartengono a due distinte generazioni, quella rappresentata da un generico mondo di adulti, ritratti in chiave farsesca, che non hanno prodotto nulla di positivo e sono sentimentalmente fragili, e un vivace gruppo di adolescenti che con disincanto usa il sesso per illudere sul sentimento. La quindicenne YØko rappresenta il punto di raccordo tra le due “etnie”: non ha ricevuto amore ma sa offrirne, possiede l’arma della giovinezza, un corpo che si presta a qualsiasi scrittura, ma accetta di deturparlo indelebilmente, sa comunicare tra i savi e gli idioti, rende i colori della vita ai morti, è violata nel corpo pur senza perdere un tenero pudore, e infine vorrebbe crescere per diventare parte di quel mondo da cui è quotidianamente aggredita. Il protagonista, invece, un uomo di mezz’età, tenta con forza di resistere all’incedere del tempo e insegue il miraggio di una certa leggerezza giovanile trascorrendo gran parte del tempo in svaghi ludici con un giovane ritardato o intrattenendosi in rapporti sessuali ogniqualvolta gliene venga offerta l’occasione. Nonostante ciò, sempre più spesso la propria immagine riflessa qua e là lo costringe ad assistere all’inarrestabile avanzare dell’età.

Quanto scritto finora non è che un abbozzo della trama di questo ambizioso film, carico di stili, tradizioni, colori, richiami ad antiche consuetudini erotiche. Okuda Eiji vorrebbe poter dire molto in materia, e per farlo utilizza gli strumenti figurativi nella loro piena tensione verbale. Tutto affidato al visibile, il sentimento dell’anomala coppia si cristallizza quindi in alcune immagini dall’effetto volutamente pittorico: specchi che rimandano la sinuosità dei corpi, splendide creature tatuate, pareti che riproducono figure eroticamente evocative in pitture dal sapore antico, corpi spesso detersi dall’acqua per esaltare la luminosità dell’epidermide. Le stesse strade, le case, gli scorci di discariche e le sagre si rivelano in pot-pourri di effetti cromatici e di forme, alternate alle tinte acide del mondo emulato da un fan di Jimi Hendrix, alle varianti del piombo nei colori della sala mortuaria, alle sfumature della cenere e del tè nelle stanze degli incontri d’amore.

Il segno del legame tra i due viene affidato alla scrittura di un tatuaggio, e in particolare al momento in cui è l’uomo stesso a penetrare con l’ago la candida pelle della ragazza. Un dolore e un piacere dalle sfumature particolari che già lo scrittore Tanizaki Jun’ichirØ in un suo noto racconto aveva così descritto: “Nel cuore del giovane tatuatore erano celati insospettabili passioni e ardenti desideri. Quando il suo ago penetrava nella pelle dei clienti e la carne si gonfiava e il sangue scorreva vermiglio, erano molti quelli che gemevano dal dolore, e più si lamentavano più egli provava un indicibile piacere.” [Tanizaki Jun’ichiro, Il tatuaggio, in Pianto di sirena e altri racconti, a cura di Adriana Boscaro, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 8). Come per la giovane donna di questo racconto, anche nel caso dell’adolescente di ShØjo il tatuaggio serve a giustificare una forza prima inespressa, una vera prova del fuoco grazie alla quale può godere del diritto di provare piacere.

Okuda Eiji, uno dei volti più noti del grande schermo nel suo paese, approda dunque alla regia con una prima opera complessa e sentita. Nel corso della sua carriera, è stato interprete di ruoli intensi in film realizzati da autori amati anche in occidente del calibro di Kumai Kei (il pubblico veneziano lo ricorderà come il discepolo in Morte di un maestro di tè). Tra le altre attività, Okuda è oggi anche uno stimato pittore, una peculiarità che riconosciamo in molti tratti di questo suo debutto alla regia.

Estratto da “L'ALTRO EDIPO” (saggio sul film Shojo con intervista al regista), in 16. Settimana Internazionale della Critica, Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica - La Biennale di Venezia, Editrice il Castoro, 2001

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