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Angeli violati (Wakamatsu Koji, 1967)

Angeli violati (Okasareta byakui) è un film costituito da una fitta rete di norme e codici simbolici che rimandano a una generale teoria del desiderio: basata sul rapporto Eros-Thanatos, la sua storia è intesa come scalata erotica in direzione della morte in termini sadiani. Si aggiunge a questa un forte sottotesto politico e una bellezza formale che ricordano parte del cinema di Pier Paolo Pasolini. Vi è infine anche un ricorso all’uso del crimine, inteso come pulsione umana e sociale, e una costante relazione tra violenza politica e sociale, anti-sacralità e sesso, che ricordano inevitabilmente alcuni dei migliori film realizzati da ÷shima Nagisa. E’ quindi un film affascinante e complesso che, insieme ad altri titoli dello stesso periodo, tra i quali Quando l’embione caccia di frodo - Taiji ga mitsuryo suru toki dello stesso Wakamatsu, incatenano lo spettatore in posizione centrale rispetto alla storia, disegnando intorno a lui un preciso progetto autoriale, come lo stesso Oshima aveva scritto: “I film di Wakamatsu Koji offrono ai loro spettatori un’esperienza che non ha equivalente alla luce del sole. E’ la voce del desiderio, dei propositi delittuosi, e quindi della miseria screziata, che echeggia nella notte. Di conseguenza, la relazione tra i film di Wakamatsu KØji e lo spettatore è altamente soggettiva, privata, e perciò concreta.”

Cinque donne e un uomo (interpretato da Kara Juro) sono protagonisti della spirale violenta che costituisce la storia del film. L’uomo si introduce in un dormitorio femminile di infermiere e le stermina, salvando solo una di loro che, come vedremo, sembra rappresentare la sua isola salvifica. Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto a Chicago, molti critici hanno voluto leggere nel crimine dell’uomo la reazione di un’intera generazione di giovani giapponesi rispetto al colonialismo americano, interpretazione sottolineata dalle parole dell’uomo, “kiss me”, pronunciate prima di uno degli omicidi. Wakamatsu adotta l’Eros come strumento per sondare la realtà e tradurla in pulsioni (politiche, sociali). Seppellire la storia nel privato è la sua posizione estrema. Al posto dei collettivi, delle manifestazioni e delle trasformazioni sociali, che pure emergono in istantanee nelle scene finali del film, si afferma la sovranità di un crimine commesso tra strette mura, isolato e in piena anarchia di codici e di sentimenti – naturalmente, quasi inutile dirlo, si tratta di un sistema destinato a perire perché deviato.

Crimine e sesso sono quindi, rispettivamente, trasgressione del sociale e fuga nel privato. Il successo del film consiste nella violenza dell’immagine che presenta materializzata una nudità. Citando quanto Pasolini aveva scritto nella raccolta di saggi Empirismo eretico, la libertà consisterebbe nella “libertà di scegliere la morte”, libertà come “attentato autolesionistico alla conservazione”, libertà che “non può essere manifestata altrimenti che attraverso un grande o un piccolo martirio” (p. 269). Anche Pasolini ha ricostruito il desiderio organizzandolo in una struttura architettonicamente angusta: il suo castello sadiano propone e denuncia lo stesso rapporto tra pubblico e privato. E’ inoltre, come nel caso di questo film, una struttura esaminata dal suo interno, corpo ermetico concluso e impenetrabile dall’esterno, cioè dal potere dell’ordine sociale. All’interno di questo organismo si vanifica la nozione di tempo (e quindi il principio stesso di morte intesa come fine) e di spazio (che varia mentre si chiude sui corpi).

Prima di giungere all’esplosione della soppressione poliziesca delle scene finali, a cominciare dall’irruzione nel dormitorio di poliziotti armati, grazie alla quale Wakamatsu proietta in modo visualmente violento la storia nel suo contesto sociale e politico, Angeli violati è strutturato secondo un complesso cerimoniale rituale di estrema bellezza. Una serie di immagini erotiche, per lo più indicative della mercificazione sessuale, introducono la storia alternandosi a istantanee dell’uomo e in particolare a primi piani sul suo sguardo. Attraverso queste immagini, Wakamatsu rende esplicita la responsabilità della società nelle turbe dell’uomo. Un’altra premessa viene offerta dalle riprese di un mare vasto e animato dal vento in cui possiamo subito identificare il liquido amniotico della sua rinascita.

La scena si trasferisce all’interno del dormitorio: mentre due delle infermiere fanno l’amore, avvertiamo i segni della latenza sessuale di partenza. Le altre amiche spiano l’amplesso e, una volta accortesi della presenza dell’uomo in strada, lo attirano all’interno dell’abitazione, catapultandolo così nello schermo. Invitato a spiare l’amplesso lesbico, si scatena nell’uomo la furia omicida con la successiva escalation di violenza. Come in Quando l’embione caccia di frodo, l’ossessione sessuale nel corso del film viene correlata al terrore della nascita. Molti sono i riferimenti allo stato fetale, dalla già citata scena del mare (da cui tra l’altro lui dice di provenire), alla ninna-nanna cantata dalla donna, alla posizione che assume nel grembo della donna risparmiata dalla violenza dove si addormenta finalmente incosciente (anche questa una sorta di piccola morte), al primo piano del bambino dopo la sua “rinascita”.

Il rigore formale delle scene permette non tanto una visione politico-morale del mondo, quanto una reazione di stampo universale rispetto alla società. I personaggi sono rappresentati come topici, stilizzazioni. Le stesse scene sono costruite secondo un percorso di tipo gestaltico: ogni scena è lunga, statica e conclusa nell’unità del film, si articola attraverso una serie di sopensioni e di reiterazioni. E’ la posa a conferire il senso, più che il movimento. I dialoghi hanno il sopravvento sulle immagini solo in due momenti del film, quando una delle infermiere lo supplica di risparmiarla fingendo, tra l’altro, di essere madre, e nella scena finale tra i due superstiti, dove la giovane donna svela la fragilità dell’uomo.

Visivamente, si crea intorno allo spettatore una rete di sguardi che lo pongono in posizione centrale rispetto alla rappresentazione, precludendogli la possibilità di intervenire da voyeur. Quindi teatro nel teatro, dato da assenza di fuoricampo, se si escludono le scene che coincidono con lo sguardo dell’uomo; lo spazio della scena che si chiude come in una scatola magica, dove lo sguardo tende a ripercorrere gli stessi itinerari. E’ in particolare la ragazza che, con il suo sguardo, fa in modo che egli si liberi del corpo fino ad assorbirlo come in un lungo orgasmo.

I cadaveri delle altre donne restano disseminati come ogni altro oggetto della scena. Ricorrerei ancora alle parole di Pasolini quando, nello stesso saggio prima citato, scriveva: “Il mio amore feticistico per le cose del mondo, mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le lega in un giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensamente, una per una”. Il feticismo delle cose per Wakamatsu richiede una cornice (la stanza), un particolare tempo di esposizione (e quindi giostra du primi e primissimi piani più o meno lunghi), e deve concepire un tipo di illuminazione che ne esalti forma e colore. Gli oggetti sono ridotti a quintessenza e la posizione statica della macchina da presa li rende immobili. La profondità si percepisce con le lunghe riprese in asse e oblique, con un certo sfasamento prospettico con cui si penetra nella scena attraverso i corpi disseminati. Le immagini che scorrono nella mente dell’uomo (prevalentemente di donne che si impongono a lui con fiera aggressività, con di base risate, pianti di madri e vedove, latrati di cani) si mescolano fluidamente a quelle della sua realtà, rappresentando un logico concatenamento nella sua violenza.

Nelle rare scene a colori, belle e terrificanti allo stesso tempo, incastonate nel generale bianco e nero, la tinta è distesa su ampie superfici, così da sottolineare i corpi più degli sfondi. Predominano il bianco e il rosso, e in particolare il secondo è il colore dell’iscrizione del film, quello della violazione. Senza voler speculare sull’idea, molto dibattuta, della violazione della donna nei film erotici giapponesi, gli omicidi, e in particolare quello della donna torturata con il rasoio, sono necessari iconograficamente per rendere l’immagine carnale dei loro corpi, altrimenti eterei e inconsistenti come angeli. La donna superstite, infatti, l’unica non violata, scompare nel finale lasciando aperti dei quesiti: se è stata lei a denunciare l’uomo e quindi a sparire, ma ancor più se è mai davvero esistita, se non è altro che un’idea e un’ossessione.

Come in altri film di Wakamatsu, dunque, l’effetto criminale porta a simpatizzare con il protagonista, giustificato nella sua vulnerabilità (cosa sottolineata maggiormente dalla risata di scherno di una delle donne di fronte alla sua impotenza). La violenza diventa così condizione di vita, senza compiacimento e senza nulla di romantico. Resta di fatti la fragilità schizofrenica di un uomo che può rappresentare un’intera generazione, incapace di cambiare la propria identità: concluderei infatti citando le parole-condanna della donna superstite quando nel finale crudelmente gli chiede: “Perché fai scorrere il sangue degli altri e non il tuo?” .

Saggio in volumetto allegato a cofanetto DVD: Koji Wakamatsu – Selection From The Early Works, Cofanetto DVD, Kinokuniya Company Ltd, 2006

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