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Terayama Shuji

Le opere di Terayama Shuji (1935-1983) sono tra i prodotti più ermetici e finemente intarsiati dell'intera cinematografia giapponese. L'accuratezza stilistica e l'eleganza formale della maggior parte delle scene dei suoi film non sono pero una ricerca gratuita del "bello" in sé, dell'effetto seduzione proprio del mezzo cinematografico, ma al contrario servono a esprimere come linguaggio polisemico un ampio mondo di onirismo erotico.

La sua intera produzione è riconducibile a pochi temi fondamentali, e ogni singola opera consiste nell'iterazione di vari centri di polarizzazione, grazie ai quali l'autore-artefice, mettendo in scena direttamente se stesso e il pubblico a cui si offre, esplora momenti d'identità di solito repressi dalla ragione. Il sistema si evolve così nell'apparente incapacità di effettuare un'unica azione drammatica, e quindi con un effetto di incertezza e di disturbo sui normali canoni di interpretazione dello spettatore.

Nel "discorso narrativo" così costituito, le forme di linguaggio sono molteplici e insistono a più livelli sensoriali, cioè visivo, auditivo e anche tattile, dato il rapporto fisico instaurato con il pubblico. L'opera si ridistribuisce su tre piani: uno che presuppone un'aspettativa da parte del fruitore, cioè la rivisitazione dei vari strumenti di cui si dispone per apprendere l'opera prima che questa venga eseguita; è la fase che corrisponde al desiderio di violentare lo schermo, penetrarvi (voyeuristicamente o meno) dal punto più distante e "altro", cioè in asse rispetto a esso dalla poltrona. Il secondo livello e quello dato dallo svolgersi dell'opera stessa, quindi dalla distruzione del preconcetto e dall'angoscia di ritrovarsi "osservato" dallo schermo e reso partecipe della logica del film. L'ultimo livello è quello della rivisitazione dell'opera, quando cioè, dopo il cadere del sipario, lo spettatore si rende conto di non poter isolare questa esperienza a un momento indefinito della propria fantasia ma che, avendovi preso parte attivamente, è destinato a rimandarla ad anfratti più reconditi della propria memoria.

In base a ciò, si comprende quindi perché Terayama abbia adottato una tale varietà di campi di espressione—poesia, cinema, teatro— e come in realtà il suo autobiografismo non sia, come nella maggior parte degli autori, un modo per esternare le proprie ossessioni nel tentativo di esorcizzarle, ma un accurato studio sullo slittamento di percezione e di coscienza individuale, che una società strettamente costituita tende invece a boicottare e a contenere di volta in volta.

A sottolineare questo anti-autobiografismo sta il suo mettere in discussione, in primo luogo, la coscienza di identità. Questo sistema, che culminerà in Video Letter nel "grido" ormai roco: “Può darsi che io sia un poeta”, fa in modo che l'identità perda la sua certezza di esistenza e si ricostruisca invece nei limiti del visibile, in qualcosa che si evolve o si degrada, ma comunque in movimento. L'identità che si manifesta in suoni o in immagini, secondo Terayama, ha rivestito sempre il ruolo di "assenza" nel linguaggio cinematografico, costretta a una angolatura o a una diegesi particolare, o piegata al disegno generale dell'opera stessa. In tal senso esistono delle "leggi" nel cinema molto prossime a quelle della società, leggi cioè che gestiscono il confine tra bene-male, realtà-fantasia, sguardo-immagine e significato-significante. Il crimine necessario sta nell'offuscarne i limiti, far in modo che lo spettatore ricostruisca questi vettori come liberazione interiore e non distanzi più se stesso dalla banda libidinale del film o dalla carnalità degli attori.

Il primo passo è scrollarsi di dosso gli stretti confini della nipponicità, scavare quindi radici comuni a tutti, antecedenti al formarsi di culture-stato. E’ un po' come voler spogliare gli attori perché non subiscano neppure il condizionamento dell'abito-segno, o lasciare che la troupe vaghi tra il pubblico o viceversa affinché crollino le pareti di uno stage visto come spazio scenico/gabbia del visibile. Per far ciò adotta due sistemi: il primo consiste nella scelta di personaggi "fuori casta", cioè i "soliti" disadattati sociali che, non rappresentando nulla, sono comuni a tutte le culture. Così esclude la presenza di un eroe da idolatrare, ma allo stesso tempo anche quella di un anti-eroe come prodotto di un determinato antecedente storico. I personaggi sono dunque dei puri "se stessi" colti mentre respirano, alle cui vite si intersecano ormai drammi destinati a essere accantonati nella memoria, e simili a quelli dello spettatore. Per questo non vi è mai tono elegiaco, ma al contrario il racconto fluttua via all'ombra di un dejà vu.

Il secondo passo consiste nel ricondurre ogni forma di repressione al sistema di "famiglia", prototipo di "famiglia del mondo" pur se colta in uno sperduto punto di Aomori, nel nord del Giappone. A ciò si aggiunge la rigida struttura del koseki (registro di famiglia, anagrafe) che in Giappone ha una particolare importanza in quanto stabilisce le leggi che determinano la dipendenza dell'individuo dal gruppo. II koseki, inteso come spazio finito proprio di ogni civiltà tribale, nonché degli stati-nazione più avanzati, è aprioristicamente un nucleo destinato a perpetuarsi nei suoi infiniti nomi. E' per questo che per Terayama si vanifica l'idea di rivoluzione come sovversione del sistema, cosa che giustamente ritiene impossibile: propone invece di fare della memoria della propria identità un campo di dominio da contrapporre al gruppo. Si pone a questo punto un problema di linguaggio e di espressione, che innanzi tutto l’autore risolve nel potere dell'erotismo e della pornografia, forma d'arte concettualizzata dove l'immaginazione umana assume più la forma di rappresentazione teatrale. E come nel linguaggio della pornografia, Terayama isola i singoli elementi voyeuristici dandovi una "colorazione" che ricorda vecchi misteri di una mitologia arcana.

Il rimando più evidente è naturalmente al suo circo (cosmo che rappresenta il doppio-antitesi della famiglia), un'enorme orgia sessuale che è un mondo da spiare attraverso aperture del tendone: a ognuna corrisponde un elemento di incertezza nello spettatore, che vede messa in discussione la propria violenza voyeuristica, sviata di volta in volta. Nel circo si amplifica l'elemento di finzione proprio della vita stessa. Ma se nella vita questo elemento si giustifica in nomi e antecedenti storici, nel circo diventa puro desiderio che si rappresenta nei singoli oggetti e nella loro ripetizione infinita. Così facendo, dando cioè al desiderio una forma composta, Terayama nega anche la possibilità di "provare il desiderio". Non resta che un’“assenza”: caos, vagabondaggio della regione, oltraggio e schizofrenia, composizione e smembramento, tutti elementi che evocano pensieri e angosce e li moltiplicano in uno scambio costante tra spettatore e personaggio. Si realizza perciò un disordine di accenni, sulla cui banda onirica si distribuiscono oggetti, animali e suoni, tutti substrati dell'inconscio, espressioni illimitate del mondo del desiderio.

A questo desiderio corrisponde la scomposizione del colore nel mondo di verosimiglianza. Spennellato in punti differenti dell'immagine, costringe lo spettatore a riconcepire i limiti del reale della scena a cui assiste, ricostruendo sulla propria retina l'immagine partendo dalla scomposizione dei colori primari. A ciò si aggiunge l'estrema luminosità dell'immagine complessiva, il troppo visibile e poco intuibile che sconvolge ogni voyeur, e che ha come opposto l'oscurità della casa in cui la famiglia vive. Quest'ultima, infatti, viene intesa come sistema claustrofobico poiché e impossibile abbandonarla. Più che sull'immagine Terayama insiste sulla "parola", cioè sui singoli sensi; la parola è per lui sempre poesia, abbreviazione dellatempesta che può prorompere a seconda del ricevente, e che è per forza negativa in quanto esistente, o liberatrice in quanto esplicabile. La parola come pittogramma e il nesso più diretto tra presente e passato, o tra “io” visibile e memoria. Serve a "cancellare" l'ossessione di un presente sempre soffocante e, ancor più, quella di un passato necessariamente buono perché gia finito.

Entrambe le dimensioni, riprese come paesaggi nella loro totalità, fluiscono sull'asse tracciato dal tempo. Il tempo che Terayama ridisegna è l'elemento più sconvolgente per lo spettatore, in quanto gli è necessario come punto di riferimento per la propria esistenza. Nella sua produzione il tempo si lascia ricreare di volta in volta come una delle tante sfere del presente memoria. Può essere immagine di vita o di morte, o più semplicemente annullarsi in una foto ricordo o in un orologio fatto in mille pezzi. Ma il film stesso, come una. lettera ormai scritta, è uno strumento morto, che ha già assolto la sua funzione nel momento in cui è stato concepito, e quindi non ha bisogno di essere inoltrato a un referente. Il tempo storico necessario alla crescita, al passaggio dall'infanzia a un mondo di adulti, è per lui sempre negativo: i bambini senza passato sono destinati a perdersi nel movimento dell'esperienza degli adulti, poiché altri personaggi della famiglia stato vi edificano le proprie ossessioni.

“Per liberarsi dai ricordi bisogna uccidere la propria madre” è una delle soluzioni più proposte da Terayama. La madre, nella messa in valore dell'aneddoto, è a sua volta un microcosmo nel mondo della famiglia, rappresentata dal suo utero accogliente, e allo stesso tempo è meccanismo perfettamente concluso nella sua ciclicità naturale. Come madre, ha la capacità di dare la vita e anche di reinghiottire nel proprio labirinto il figlio, e come entità ontologica, data la sua archetipa vicinanza alla natura, viene rappresentata come essere androgino e contemplativo, qualità, queste, proprie delle sciamane. Nell'androginia, vista come riconciliazione degli opposti, è in grado di rappresentare anche il lato maschile. Anche alla madre, naturalmente, corrisponde un "doppio", cioè la prostituta liberatrice: vi è quindi l'attaccamento morboso della madre che vorrebbe eliminare la sessualità del figlio, e in antitesi il distacco formale della prostituta che violenta sessualmente e proietta nel futuro. La prostituta senza età, del passato e del presente, è anch'essa androgina, sempre con un corpo tendenzialmente maschile e resa donna da stereotipi sessuali, e ha in comune con la madre solo il rimando costante al simbolo del serpente, animale in grado di avvolgere e di penetrare allo stesso tempo.

Per Terayama il cinema, come arte che più può esaltare il potere esibizionistico dello sguardo, supplisce alle pause poetiche con delle "aggiunte" di apparenze che rafforzano il carattere di metamorfosi delle scene. Queste aggiunte si basano principalmente sul decor, cioè sull'insieme di elementi estetici dotati di una propria significazione che sfaldano l'idea di realtà tangibile e sublimano l'immaginario, e al contempo lasciano sfumare la di mensione del paesaggio, come succede per la poesia. Gli oggetti del decor si distribuiscono in una struttura che rimanda ancora una volta al labirinto, al cui interno vi sono infinite aperture sull'immaginario in senso orizzontale (porte senza pareti, finestre, squarci), sull'aldilà attraverso il sansu no kawa ~ o passaggi nel passato in senso verticale.

Il segno che sembra racchiudere tutti gli altri è la fotografia, indistinguibile dalla pittura, in cui si fondono tre piani sempre costanti: macchina da presa, schermo verso cui si volge lo spettatore e schermo/specchio attraverso cui questi viene attirato nell'immagine. La fotografia è pertanto parcellizzata e sgretolata, è spesso confusa con le immagini in movimento nel film. E il culmine della finzione, come potrebbe esserlo un fotomontaggio, e pertanto infinitamente ripetibile nel percorso dell'occhio/identità.

Di pari passo con le rappresentazioni teatrali del suo Tenjo Sajiki e con le numerose pubblicazioni di poesie, saggistica, favolistica, e così via, la produzione cinematografica di Terayama si distribuisce con continuità nell'arco di tempo che va dal '59 all'83, anno della sua morte, in una ricerca incessante di ogni “oggetto” espressivo in grado di disegnare quel suo

leitmotiv che è stato la memoria. Vanno incluse anche le sei sceneggiature scritte per Shinoda, Matsumoto, Higashi e Hani, e non mancano naturalmente tra i suoi film le cadute, cioè i più commerciali Boxer e Shanhai ijin shokan—Chaina doru.

Ogni sua opera si può dire conclusa in quanto indipendente dall'insieme, ma allo stesso tempo incompiuta poiché viene lasciata, come uno haiku, all'interpretazione che lo spettatore vi dà in base alla propria esperienza.

Estratto da "FORMA DELL'IMMAGINE E IMMAGINE DELLA FORMA: ITINERARIO META-VISIVO NELL'OPERA DI TERAYAMA SHUJI" in Il Giappone, Volume XXXII, 1994,

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