Naked Blood (Sato Hisayasu, 1995)
Il cinema insegna anche che la ricerca scientifica, di suo, non aiuta a rinsaldare la fiducia nell’intervento umano sulla natura. Molto interessante in quest’ambito è l’esempio di Naked Blood (Nekeddo buraddo – Megyaku, Lett: Naked Blood - Maltrattamento sulle donne, 1995, regia di Sato Hisayasu), uno dei film più duri sull’argomento. Il diciassettenne Eiji è figlio di due scienziati: suo padre, scomparso prima che il ragazzo nascesse, conduceva degli esperimenti per rendere l’uomo immortale (il nome Eiji scelto dal padre significa proprio “persona immortale”); sua madre, quasi agli antipodi, degli esperimenti per mettere a punto un contraccettivo in grado di limitare il sovrappopolamento terrestre. Nel segreto della sua camera, anche Eiji tenta un progetto “benefico”: mette a punto una sostanza, che chiama Myson (mio figlio), con cui intende debellare del tutto il dolore, stimolando una iper-produzione di endorfina nel cervello. Decide di testare di nascosto il suo ritrovato, iniettandolo in tre giovani donne che si sono prestate alla sperimentazione della madre. Ma la sua medicina va oltre i risultati sperati e trasforma il dolore in piacere. La prima ragazza, ossessionata dal suo aspetto fisico, scopre di godere infilzando la propria carne con spilli, aghi e punteruoli, fino a deturpare del tutto il suo corpo (davanti a uno specchio, nel segno del suo eccessivo attaccamento all’aspetto esteriore). La seconda, sempre ossessionata dal cibo, attraverso l’autofagia scopre l’unione del piacere legato al cibo con quello del dolore fisico trasformato in orgasmo: seduta su un tavolo (una tavola, nel suo caso, scena che si fatica a osservare), dopo aver gustato le proprie dita impastellate e fritte come tenpura, con un coltello taglia parte della sua vagina, un capezzolo e un occhio e li mangia voluttuosamente. La terza ragazza, ossessionata dall’insonnia, ha bisogno di collegarsi attraverso un macchinario virtuale a un cactus per poter avere la percezione di un qualcosa che somigli a un sogno. La droga sviluppa in lei il piacere di dare la morte agli altri (e infatti comincia con le altre due ragazze e la madre del giovane). Quest’ultima ha una relazione con Eiji, l’unico possibile amplesso per il ragazzo, che delle altre due “cavie” ha filmato ogni attimo con una videocamera, da voyeur più da scienziato attento alle manifestazioni dell’esperimento. Eiji viene ucciso dalla ragazza, ma il suo corpo continua a vivere nel bambino dallo stesso nome che lei mette al mondo e il suo esperimento trova diffusione attraverso un viaggio nel mondo che la donna effettua per propagarlo.
Questo film utilizza vari percorsi per esplorare il corpo: lo splatter lo definisce nella sua organicità, la bioscienza ne lascia intendere la trasformabilità, la tecnologia (computer, visori elettronici, videocamera) la sua rappresentabilità. Jay McRoy ha espresso una ulteriore valutazione della regia di SatØ, deducendo che le scene di esproprio fisico, soprattutto quelle del corpo tagliato per auto-cannibalismo, rappresentino una sovraesposizione delle parti che la censura giapponese non permette vengano mostrate, amplificate qui nella loro valenza erotica, conferendo così anche un significato politico al corpo [MCROY, 2008: 56-57].
Estratto da "Netamorfosi - Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese", Castello di Serravalle, Epika, 2010.