Terayama Shuji: i cortometraggi
Sono le chicche di Terayama, la vera essenza del suo cinema. Poiché estremamente brevi, così da non aver bisogno di costruire diegesi narrative e temporali di ampio disegno, sono in un certo senso la traduzione in immagini più diretta delle sue poesie. In tutto diciassette, qui di seguito sono elencati quelli che, a mio parere, possono fornire più elementi per "accedere" all'interpretazione dei lungometraggi.
Prima di tutto, l'acclamato Tomato Ketchup Kotei (L'Imperatore Tomato Ketchup, 1971), Premio al Festival di Cannes e di Ceylon.Terayama costruisce un sistema sociale di soli bambini che, dopo aver sovvertito il potere degli adulti, regnano sull'onda di giochi "innocenti" e sadici (contro gli adulti oppressori, in cui spesso si è voluto riconoscere una metafora dell'occidentalizzazione del Giappone).Per quanto costruita dal punto di vista dei bambini, l'opera lascia un che di incompiuto, presagendo così che anche questi saranno a loro volta degli adulti nel domani, e che quindi con loro è destinato a tornare un sistematico mondo di leggi. E' per questo che i bambini non vengono messi in scena come adulti dimezzati, ma come persone definite, caratterizzate dall'esibizionismo con cui amano mostrarsi (in lunghe scene frontali, con lo sguardo diretto alla macchina da presa).Gli stessi bambini varano una Costituzione, al cui interno le scelte capitali vengono effettuate con jan ken pon.Emergono due immagini cardine: quella del padre codardo e onanista, magro e mai violento, e quella della madre forte come una prostituta e dolce fino a soffocare. Entrambi negati e seviziati, sono accusati in particolare di aver represso (e quindi stimolato) le forme di perversione "naturale" dei bambini, elencate nella loro Costituzione Al di là dell'apparente anarchia di questo loro sistema, vi è comunque la costruzione di un Impero, luogo quindi di estremismi di destra che Terayama localizza in particolare in Giappone e in Germania (il che spiega gli inserti in tedesco), e che ritornerà in tutti i suoi film nelle fotografie di ufficiali di marina e dell'esercito del periodo Taisho, oltre che nell'immancabile presenza dello hinomaru.
Altra costante, che e anche il tema di Rora (Lola, 1974), e il tentativo di avvicinare il film allo spettatore, così da renderlo partecipe allo svolgersi della finzione. Per la proiezione di questa semplice storia di un ragazzo che fugge da tre prostitute, Terayama ha creato uno schermo fatto di varie strisce di gomma attraverso le quali il protagonista può scappare nella sala, tra il pubblico, e gli stessi spettatori possono penetrare fisicamente il film. Così facendo distrugge l'idea dello schermo come recinto sacro a cui lo spettatore non ha accesso, accentuandone invece l'artificialità, il fatto che sia solo un terreno di riproduzione di finzioni. Lo schermo stesso, quindi, si sgretola a contatto dello spettatore, si lascia "toccare con mano" fino al dissolversi dell'immagine di finzione.
Altro gioco di prestigio e Chofukuki (Rapporto sull'abbigliarsi a farfalla, 1974), noto in Occidente come 16~1. Nasce dallo haiku di Terayama: << Nascosta nella benda nell'occhio la morta farfalla, [il ragazzo] attraversa monti e fiumi >> o, in altre parole, se durante le immagini di un film a 16mm sbatte una farfalla su un proiettore, vi si sarà aggiunta un'altra immagine (16 + 1) che, a sua volta, ne avrà cancellata una precedente (16-1): osservare e conoscere, ma ciò rende vulnerabili. In bellissime tavole erotiche e decadenti giocate sul binomio sesso-cibo, un ragazzo si muove in stanze di erotismo come in luoghi di conoscenza, solo parzialmente accessibili con lo sguardo a causa della farfalla che gli ricopre un occhio. Subentrano vari elementi di interferenza nelle scene: ombre che si sovrappongono come seconda realtà, anche questa erotica, a quella delle immagini di fondo. In qualche modo le ombre sono paradossalmente più reali delle immagini che sovrastano, poiché queste ultime vengono colte da prospettive angolari acutissime e distese in chiazze di colore smembrato, non omogeneo, che ne accentua il carattere di finzione.
In Shinpan (Arbitrio, 1975) il tema e il chiodo, simbolo fallico, presentato in una rassegna vastissima di forme e funzioni. Anche qui l'effetto e quello di un'unica pittura erotica in cui il chiodo viene di volta in volta miniaturizzato (per esempio quando visto dall'alto, così da sembrare un punto), o reso gigantesco e imponente, come nella scena dell'uomo nudo che lo trasporta, brancolando, lungo il proprio calvario sulla montagna. Tecnicamente l'idea del chiodo è quella di un'interferenza nell'immagine, in grado di modificarsi a seconda dello sguardo dello spettatore e della prospettiva da cui viene osservato. Nella metafora, ovviamente, persiste il simbolo fallico. Durante la proiezione e in particolare alla fine, prima cioè dello scorrere dei titoli di coda, gli spettatori stessi vengono invitati da un assistente a conficcare chiodi nello schermo, creando a loro volta un'interferenza nel film. Di conseguenza, ogni proiezione differisce dalle precedenti a seconda del pubblico che vi assiste. Quindi, come gia in Rora, con Shinpan e il successivo Meikyudan (Conversazione sul labirinto, 1975), film addirittura proiettato su una porta, insiste sulla non-distanza tra proiettore e schermo, e quindi schermo-spettatore, rifiutando cioè l'idea che un film si concluda tecnicamente con la sua realizzazione.
In seguito, con Keshigomu (Gomma per cancellare, 1977) interviene direttamente sulle possibilità percettive dello spettatore, tentando di cancellare i ricordi-immagini impressi nella memoria. Intende quindi l'occhio umano come una normale macchina da presa, per cui un'immagine viene attinta e trasmessa in macchie nella mente. Modificando questi segni, è possibile agire sul proprio passato. Le cancellazioni sulla scena avvengono in due modi: per mezzo di una gomma vera e propria come interferenza "esterna" e sovversiva sulle scene del passato, o tramite macchie che si dilatano dall'interno della scena stessa, offuscando i ricordi e i valori del tempo nelle immagini del passato. Ogni scena "cancellata" lascia il posto a un'altra, un continuo scorrere di trompe-l'oeil con cui il presente elimina il proprio passato e si autoelimina di conseguenza, poiché la gomma come mezzo anarchico o come strumento culturale d'interferenza, e poi a sua volta destinata a consumarsi a seconda delle "superfici" che cancella. E' il tema chiave, come vedremo, di Den'en ni shisu in particolare, ma in genere del percorso aritmico che Terayama definisce per la propria memoria-passato.
Dopo Maldoror no uta (I canti di Maldoror, 1977), trasposizione in affreschi erotici delle "parole" dell'opera di Lautreamont, ancora sull'importanza delle immagini, gira Issunboshi o kijutsu suru kokoromi (Tentativo di descrivere i nani, 1977). Questo film parte direttamente da un'esperienza-ossessione del regista. Cresciuto infatti tra le quinte della sala cinematografica della sua famiglia ad Aomori, aveva sin da piccolo idealizzato le immagini delle star hollywoodiane, dee più che persone, appartenenti a un Olimpo lontano anni luce dallo spettatore. In questo film, un nano (simbolo-parodia dell'infanzia dell'autore e del rifiuto di crescere) cerca in tutti i modi di impossessarsi di una diva nuda la cui immagine (incorporea e bidimensionale e solo riflessa: prima su una serie di cubi che egli tenta di legare, poi su vari schermi che taglia e penetra (penetrando così la donna stessa). Il nano ha un sorriso costante che invita lo spettatore a essergli complice.
L'uso del mezzo filmico come tecnica di espressione, quindi, per Terayama deve molto alla rappresentabilità dell'oggetto stesso del desiderio. Il tramite che consente l'appropriazione o simulazione del desiderio resta lo sguardo, e pertanto ne sonda in vari modi i percorsi che conducono l'immagine alla sua percezione mnemonica. E' in questo senso che ha realizzato lo smembramento di Seishonen no tame no eiga nyamon (Introduzione ai film per ragazzi, 1974), composto di tre differenti "testi" di lettura interagenti: un primo testo in rosa e dato da una sequenza di immagini fisse, figure uniche o parcellizzate, che alternano due fasi temporali, tra passato e presente, senza un'apparente logica. Il secondo spezzone è in azzurro ed è il più violento dei tre: sono immagini in movimento lentissimo fissate a una regola prospettica che accentua il senso di profondità (riprese dal basso sempre frontali).Inoltre un continuo ricorso alle dissolvenze ne rende spasmodico il ritmo. La terza parte, in verde, è un'unica scena essenziale, nel complesso scura così da contrastare l'estrema luminosità del primo film. Qui la macchina da presa e fissa come davanti a un quadro, e i movimenti che avvengono all'esterno della cornice sono tutti potenzialmente sado-masochistici, immaginati come può esserla una scena sbirciata dal buco della serratura.
Il rapporto immagine-schermo, inteso iconograficamente come sublimazione di quello tra parola-libro, trova il suo punto di maggiore forza in quello che e, a mio parere, il più affascinante tra i suoi cortometraggi: Nitojo- Kage no eiga (La donna a due teste—Film d'ombra, 1977).Anche qui dimostra il conflitto che si crea dalla sovrapposizione di varie ombre su un’immagine. L'ombra che noi concepiamo come traccia, accenno di persona, amorfa poiché non ne percepiamo occhi e lineamenti, diventa protagonista del film, dotata di una propria identità. Si tratta di una serie di scene differenti (ancora solo accenni), in cui un attore introduce un movimento, che viene poi continuato dalla propria ombra. Bellissima, per esempio, la scena in cui un uomo e una donna, dopo aver fatto l'amore, si separano con apparente indifferenza, mentre le loro ombre continuano l'amplesso con più passione di prima. L'ombra e quindi una scrittura di sentimenti di solito inespressi, ma dall'estrema naturalezza con cui acquista vita, e con il fatto che dopo un po' si sia attratti a seguire i suoi movimenti piuttosto quelli dei personaggi, Terayama disperde in modo definitivo il limite tra realtà e finzione, tra percezione visiva e costruzione ideologica. L'artificialità viene accentuata nell'ultima scena in cui ci viene rivelato l'intero studio durante le riprese, il regista e i macchinari con cui le ombre vengono prodotte.
In qualche modo questo film fa pensare allo stesso autore, a questa sua "ombra" che, a dieci anni dalla scomparsa, continua a creare scandalo e a far parlare di se. Come in Saraba hakobune, suo film-testamento, e come nel tentativo irrisolto di definizione del se di Video Letter, le immagini e le idee sono destinate a perpetuarsi proprio perché dotate di un senso e di un non-senso allo stesso tempo, al di là della pura materia, del corpo come "carne" e delle parole con cui tutto viene definito.
Estratto da "FORMA DELL'IMMAGINE E IMMAGINE DELLA FORMA: ITINERARIO META-VISIVO NELL'OPERA DI TERAYAMA SHUJI" in Il Giappone, Volume XXXII, 1994,