The Pillow Book di Peter Greenaway (1996)
The Pillow Book
Tra i film di Peter Greenaway di maggiore successo internazionale, uno dei più suggestivi e più amati dal pubblico occidentale è The Pillow Book, realizzato nel 1996. La pellicola si ispira all’opera principale di Sei Shonagon — tra le più note scrittrici giapponesi del periodo Heian (794-1185) —, I racconti del guanciale (Makura no soshi, compilato tra il 996 e il 1002), che consiste in una raccolta di note frammentate sul quotidianodell’autrice, tracciate senza apparente intento descrittivo, cariche di impressioni, sensazioni, liste di oggetti e di eventi, nello stile, cioè, definito “zuihitsu” (“seguire il pennello”, senza evidenti percorsi di narrazione). Recuperando dall’antico testo entrambe la discontinuità narrativa e la descrizione in immagini del flusso emotivo, il regista ha ricomposto un ammaliante affresco erotico trasposto in ambiente contemporaneo, con cui rivela la sua profonda conoscenza dell’arte e della letteratura giapponesi. In particolare, attraverso una descrizione tracciata, a sua volta, in “punta di pennello”, Greenaway ha riproposto in più scene alcune tecniche e stili della pittura tradizionale giapponese, con cui gli è stato possibile ricreare le atmosfere più consone alla descrizione della sua protagonista, icona erotica, oltre che donna trasnazionale e atemporale.
Spazio
Per creare ambienti e sofisticazioni che sottolineino la fisicità dei corpi, lo spazio pittorico giapponese è spesso organizzato attraverso il contrasto tra linearità marcata e sinuosità sfumata. La linearità, in alcuni casi claustrofobicamente geometrica, viene in genere tracciata attraverso l’inserimento di porte e finestre scorrevoli, nelle strutture lignee a scacchiera delle pareti, di tutto quanto possa creare un senso gestaltico di gestione dello spazio e rappresentare delle ideali cornici aperte accanto e intorno al soggetto principale. Il cinema giapponese rispetta e riproduce spesso questo raccordo tra corpo e materia, poiché è immediatamente evocativo di una situazione intima che si sviluppa in un dato contesto sociale.
La sinuosità sfumata, invece, viene resa non solo attraverso i corpi, ma anche grazie all’inserimento di ideogrammi all’interno delle immagini. La spennellatura, l’accenno, il segno lievemente introdotto ma irrisolto, visualmente pregnante nella scrittura giapponese (nonché essenza dello stile poetico haiku), rappresenta dunque il movimento che si sottrae alla ripartizione organizzata dello spazio e dischiude un immaginario di passione privata. La morbida trasgressione di questo tratto è anche elemento essenziale, tra i tanti esempi, nelle rigorose architetture zen, come nel caso dei tetti composti da sobri intrecci di linee da cui “sfuggono” guizzanti vertici protesi verso il cielo, ma è anche direttamente riconoscibile negli inchiostri giapponesi che riproducono le foglie di bambù, fragili, accennate e sfumate a fronte del significato che veicolano, cioè di forza e di resistenza rispetto alle avversità.
Considerato il frequente ricorso ad angoli estremi e gli slittamenti repentini dei punti di fuga delle immagini in The Pillow Book, è evidente che Greenaway ha amato il tipo di approccio voyeuristico che la pittura giapponese tradizionalmente riserva alle scene di passione. Tre sono i principali “strumenti” utilizzati: il primo consiste nell’inserimento di un elemento naturale predominante nell’immagine complessiva. In molti casi si tratta di un albero dalle fronde ampie, selezionato non solo per rappresentare la dissolvenza dei corpi nell’unicum naturale, ma anche per evocare il ciclico mutare delle stagioni, quindi la caducità dell’esistenza. Nel cinema giapponese, una delle immagini più celebri in questo senso è quella in cui il protagonista di Racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953, regia di Mizoguchi Kenji) siede sull’erba con la donna-demone di cui è infatuato, mentre alle sue spalle due alberi spogli anticipano come triste presagio la fine tragica della loro relazione, tinta dai colori della morte.
Il secondo strumento amato dal regista britannico consiste nell’utilizzo di un angolo di ripresa illusoriamente prospettico, in grado di inquadrare un ambiente dall’alto, con un potenziale distacco dello spettatore rispetto alla fruizione “privata” della scena, e allo stesso tempo di conservare in primo piano l’immagine della coppia. Nonostante la visione dall’alto, si penetra prepotentemente nell’immagine: l’intreccio dei corpi è spesso decentrato e confinato a un angolo del quadro, dove la scena si riduce alla sua quintessenza, stemperata nell’ampia zona di “vuoto” che predomina nel fotogramma. Tra le sequenze più importanti del cinema giapponese costruite attraverso questa particolare composizione prospettica, non si può non fare riferimento alle frequenti riprese in esterni del film Ecco l’impero dei sensi (Ai no koriida, 1976, regia di Oshima Nagisa), dove l’erotismo si definisce proprio attraverso la sottrazione allo sguardo della centralità dei corpi.
Infine, di grande importanza nella composizione generale dell’immagine è il particolare apporto cromatico, peculiare anche nell’opera di Greenaway. Il colore è, in generale, estremamente evocativo nella cultura giapponese, poiché ogni tinta si abbina a una suggestione, come il rosso che immediatamente rimanda al mondo dell’erotismo. La spennellatura di una tinta non è di norma invasiva nella dinamica del quadro, ma al contrario si presta a diventare un accenno, in grado di sollecitare altre potenziali variabili interpretative del soggetto proposto. I colori sono spesso scomposti e distribuiti in modo disomogeneo, affinché sia il fruitore, attore preferenziale della creazione artistica, a ricomporne l’organicità sulla base della propria esperienza sensoriale. Tra i tanti artisti che hanno esportato la formula di questa tecnica in Occidente, il regista-pittore Kurosawa Akira ha composto alcune tra le tavole cromatiche di maggiore intensità, ricreando affascinanti scontri drammatici tra le tinte, in opere dal successo internazionale come Sogni (Konna yume o mita, 1990) e Dodesukaden (id., 1970).
Allo smembramento cromatico di eredità nipponica, Greenaway abbina anche un’ulteriore interferenza, aprendo di continuo nuovi quadri all’interno e sulle immagini, aggiungendo quindi un’esplorazione in profondità tra i diversi livelli della narrazione. L’effetto è ulteriormente accentuato dallo slittamento temporale tra le due visioni (spesso nell’immagine sovrapposta vediamo la scrittrice dell’opera originale di mille anni fa), grazie al quale il racconto dell’erotismo della giovane protagonista si disancora da una diegesi classica, per assumere i contorni del mito.
Ideogrammi.
Le scritture ideogrammatiche giapponese e cinese sono, con il loro sostrato erotico, protagoniste di The Pillow Book. L’uso del pennello, l’accenno dei tratti, le scomposizioni cromatiche, l’utilizzo di ampie zone di vuoto, diventano gli elementi iconograficamente più prossimi all’essenza della cultura giapponese. In un unico segno è possibile racchiudere semanticamente un significato complesso, mentre la struttura delle sue linee ne tracciano la traduzione visuale in un intrigante gioco di rimandi. Grazie a questa ricca polisemia, il mondo del fumetto giapponese, tra i tanti ambiti, si è distinto dagli equivalenti occidentali, poiché la scrittura concorre direttamente alla dinamica dell’immagine, amplificandone l’impatto emotivo.
La tecnica calligrafica, in giapponese chiamata shodo, in Estremo Oriente è ritenuta sin dall’antichità una delle principali arti, insieme con poesia e pittura. Vari stili si sono formati nel corso dei secoli, trasmessi di generazione in generazione da maestri a discepoli, conservando inalterate le caratteristiche iniziali della pratica. In particolare, è ancora oggi di fondamentale importanza il coinvolgimento dell’intero corpo dell’artista nell’atto: indipendentemente dal fatto che sia seduto o in piedi rispetto alla superficie, l’autore deve mantenere il proprio busto in posizione eretta ed eseguire i movimenti fluidamente con il solo braccio, in perpendicolare rispetto al foglio. Il risultato deriva da uno stato di armonia tra mente e corpo, affinché l’energia dell’artista straripi sul foglio, imprimendo un segno che si animi di sensi intrinseci e acquisti una particolare carnalità.
Gli unici strumenti di cui il calligrafo dispone sono il pennello, l’inchiostro e il supporto. Il pennello (fude) può essere di varie lunghezze e avere setole di diametro e di origine animale differente, purché si presti alla massima elasticità, assecondando i movimenti dell’artista. In The Pillow Book come in molto cinema giapponese, la sua funzione erotica è direttamente virile, rappresenta l’oggetto che imprime il “piacere” dell’arte, seppure al contempo intimamente legato all’immagine della donna — le setole intrise di colore nero si animano di un movimento che ricorda i capelli femminili, componente erotica fondamentale.
L’inchiostro è tradizionalmente nero o in varianti cromatiche sobrie; è di origine cinese o indiana, composto da un blend di sostanze vegetali e animali che ne permettono la vasta gamma di sfumature. La sua essenza organica e la liquidità con cui viene distribuito costituiscono, come già il pennello, un immediato richiamo erotico.
Infine il supporto, normalmente carta giapponese washi derivata da varie sostanze vegetali tra cui la canapa di riso e il bambù, con differenti caratteristiche di spessore, tenuta di umidità e resistenza. La porosità della sua grana permette che l’inchiostro penetri a diverse profondità, contenendone tuttavia facilmente le sbavature; l’apparente imperfezione dovuta alla visibilità delle sue fibre la rende particolarmente evocativa della grana epidermica umana; inoltre, la variabile di sfumature acquisite dall’inchiostro attraverso la sua consistenza simula la tridimensionalità dell’ideogramma.
Ciò che il pennello imprime sul supporto è dunque destinato a prendere vita e a trasmettere nel tempo emozioni sempre differenti, a seconda del fruitore. In virtù della sua “organicità”, la scrittura è in naturale continuità rispetto ai corpi umani. Prima ancora dell’esempio di The Pillow Book, il cinema giapponese ha spesso idealizzato questa commistione per creare immagini altamente suggestive. Tra i tanti esempi, basti pensare all’intera struttura del film di Shinoda Masahiro Doppio suicidio ad Amijima (Shinju ten no Amijima, 1969), sceneggiato a più mani dal regista insieme alla poetessa Tomioka Taeoko e al compositore Takemitsu Toru, che crea gran parte del décor sulla stretta tessitura tra corpi e ideogrammi. Allo stesso modo, non si può prescindere dall’opera sperimentale del poeta/regista Terayama Shuji, come nel caso del suo celebre Buttate i libri, usciamo nelle strade (Sho o sute yo, machi e deyo, 1971), che inscrive i corpi nella calligrafia (in una simulazione di chiaroscuri), rimandando la carnalità ai quadri che fungono da cornice.
La scrittura sul corpo.
In Giappone, la scrittura sui corpi, così come il tatuaggio, ha assunto dal passato diverse valenze di matrice religiosa, di origine sia buddhista sia shintoista, motivo che ne ha esaltato nel tempo la sacralità. Molti riti ed esorcismi sono tuttora effettuati attraverso l’impressione di ideogrammi sulla pelle umana, e in molti casi si usa ancora la pratica di scrivere sui corpi dei defunti dei nomi che si suppone li accompagnino nell’Aldilà, senza i quali vagherebbero come spiriti erranti. Va da sé che molti esempi di scrittura sui corpi si siano moltiplicati nella storia del cinema giapponese, in particolare in ambito erotico e orrorifico, alcuni dei quali si sono rivelati di grande successo in Occidente. Tra le immagini più note, l’acclamato Kaidan (id., Kobayashi Masaki, 1964) e il già citato Ecco l’impero dei sensi ci rimandano in modo diretto a The Pillow Book, in particolare alle scene in cui l’editore “espianta” la pelle dal corpo dell’amante, “tela” su cui la protagonista aveva scritto il suo romanzo, e che avrebbe dovuto accompagnare il giovane nella sua nuova vita dopo la morte.
Il romanzo scritto dalla donna sulla pelle del giovane, così come nel caso dei tatuaggi, ha la doppia valenza di preservare la memoria della sua ispirazione e, allo stesso tempo, di affidarla alla caducità della natura umana. Tuttavia, la violenza con cui il vecchio editore, ormai incapace di controllare il proprio desiderio, “espropria” la pelle del giovane amante morto, tramutandola in una pergamena che impagina e rilega come un libro, implica una mutilazione dell’intero universo artistico della protagonista. Non è un caso che la donna, all’apice della sua rabbia, ne parli come di un sacrilegio, imputando a quest’atto l’impossibilità che lei completi l’intera opera. In questa scena (siamo al VI libro intitolato Il libro dell’amante), ancora una volta, mentre il corpo del giovane viene estratto dalla bara e denudato e mentre scorrono in sovrimpressione, accompagnate da nuove immagini, le parole di Sei Shonagon (“Tutto ciò che è di colore indaco è splendido: i fiori, i filati, la carta”), Greenaway affida alla forma e alla pregnanza cromatica il senso delle pulsioni della donna, il corso dell’esistenza e la portata del suo desiderio, con un effetto di alta temperatura emotiva.
Tratto da Maria Roberta Novielli, Arte, letteratura e cinema nella tradizione giapponese: le fonti di ispirazione per the pillow book di Peter Greenaway in Marco Del Monte, Far comprendere far vedere - Cinema, fruizione. Multimedialita': il caso "Russie!", in Sgresende, Crocetta Del Montello (Tv), Terra Ferma, vol. 18, pp. 95-103