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Il mercato della carne: pink eiga

Il mercato della carne

Da più di quarant’anni, il genere erotico costituisce un filone di successo nell’industria cinematografica giapponese. Definito genericamente pink eiga (“cinema rosa”, il colore del pubblico femminile a cui era inizialmente indirizzato), ha trovato un’ulteriore diffusione a partire dalla nascita dello homevideo, nel cui ambito si è presto scissa una sua consistente porzione definita AOV (adult original video), più marcatamente hardcore e pornografica, spesso di qualità inferiore rispetto ai prodotti erotici destinati alle sale. Come nel caso degli original video, i film pink, che pure si risolvono spesso nella monotona ripetizione di temi e di scene, hanno rappresentato un territorio di sperimentazione per i loro registi, offrendo non di rado opere di interesse. Si tratta ancora una volta di prodotti dalla durata e dai budget ridotti, girati comunque in 35mm, in cui i temi erotici vengono mostrati nella gimcana di una fitta rete di norme censorie, che ne vietano, per esempio, l’esposizione diretta dei genitali[1].

Alcuni dei registi di cui si è scritto hanno attraversato a lungo o per brevi parentesi quest’ambito, il che ha permesso loro di accelerare il periodo di tirocinio previsto per la promozione alla carriera registica e per il raggiungimento della notorietà: Kurosawa Kiyoshi, Mochizuki RokurØ, Sono Shion tra i tanti. Altri, quasi tutti apparsi sulla scena registica nel 1989, hanno elevato il genere ad arte e sono pertanto conosciuti come Shitenno, i “Quattro Re Celesti”: Sato Hisayasu, Zeze Takahisa, Sano Kazuhiro e Sato Toshiki[2]. A loro si devono alcuni dei titoli di maggiore interesse di questi ultimi anni, in cui la sessualità funge prevalentemente da specchietto per le allodole per temi maturi, meritatandosi uno spazio autoriale acclamato a livello internazionale. Tra le file degli aiuto registi degli ShitennØ sono emersi nel panorama cinematografico anche i cosiddetti Shichi fukujin (“Sette dei della fortuna”[3]), cioè Ueno Toshiya, Enomoto Toshiro, Tajiri Yuji, Kamata Yoshitaka, Sakamoto Rei, Imaoka Shinji e Meike Mitsuru, interpreti sensibili della realtà giovanile. Resta intensa anche la produzione di quei registi che, a partire dagli anni ottanta e fino al 1992, hanno lavorato sotto lo pseudonimo collettivo “Go Ijuin”, cioè Nakamura Genji, Ishikawa Hitoshi e Hiroki Ryuichi, autori che hanno contribuito a divulgare l’erotismo sado-maso al pubblico anche occidentale. Infine, tra i più proliferi confezionatori di pink, da segnalare la pluripremiata regista Hamano Sachi (Sachiko) che, con la propria compagnia di produzione, la Tantansha, ha prodotto oltre 300 film.

Anche per gli interpreti il pink è un ottimo trampolino di lancio e un ideale percorso verso la fama. Molte star che hanno esordito in quest’ambito hanno presto trovato spazio su riviste dedicate al mondo dello spettacolo, spot pubblicitari, programmi televisivi e film non erotici. Basti pensare, tra le prime del nuovo cinema erotico, alla carriera di Kuroki Kaoru, dall’inizio acclamata protagonista di film a sfondo sado-masochistico, balzata agli onori del gossip per la dichiarata decisione di non radersi i peli ascellari (che evocano quelli pubici, oggetto della forbice censoria), asserendo il suo desiderio di elevare la sessualità nella scala dei valori culturali, cioè rendendola prepotentemente pubblica: fino al suo ritiro dalle scene, avvenuto nel 1994, è stata protagonista di talk show televisivi e spot pubblicitari, con una fama inaspettata per l’interprete di un genere che si suppone di nicchia.

I film erotici propongono sottogeneri che non si discostano da quelli occidentali, con una marcata preferenza per la sfera sado-masochistica: bondage, stupri, violenze ai danni di giovani ragazze, impiegate e segretarie seviziate, polizieschi con abusi di potere, vicine di casa violentate nel loro ambiente. Si affianca anche una vasta produzione di film dedicati al mondo omosessuale, conosciuti come barazoku eiga (“film sulla truppa della rosa”). A gestire la produzione dei tanti titoli erotici, si spartiscono oggi le maggiori fette di mercato le compagnie OP Eiga (ex Okura), Kokuei, Xess (Eccess), Shintoho e ENK, ciascuna specializzata in funzione di un determinato tipo di pubblico (la OP, per esempio, è tra quelle che propone più scene di nudo). Già da una ventina d’anni, il “Pinku Taisho” (Gran Premio Pink, organizzato dalla rivista PG) viene annualmente conferito all’opera ritenuta migliore in ambito erotico, oltre che al miglior regista del genere.

I film pink sono quasi sempre soft-core che, nei casi più interessanti, mescolano alle scene sessuali un sottotesto utile a contestualizzarli: può trattarsi di una tematica politica, sociale, un dramma individuale, un episodio di cronaca, comunque in molti casi di una trama che “assorbe” l’erotismo, avvicinandolo all’esperienza personale dello spettatore, invece di confinare l’atto fisico alla mera esperienza voyeuristica di un pubblico anonimo (come più facilmente avviene con gli adult video). In questi film, la donna si discosta molto da quella che liberamente sceglie la sessualità, protagonista dello stesso genere in Occidente: lo stupro e le violenze a cui sono soggette le giovani, comunque, nell’immaginario del pubblico sono destinate a sortire lo stesso effetto, cioè permetterere loro di scoprire il piacere (non mancano, tuttavia, i casi di donne-dominatrici, anche se in quantità minore).

La violazione del corpo femminile risponde agli stessi meccanismi che fungono da base per l’horror sovrannaturale: il corpo perfetto e compiuto della donna, sempre nell’idea dell’essere in grado di generare la vita e di porne fine, viene ripetutamente esplorato e leso attraverso la sua dissacrazione (come già aveva fatto lo sguardo di Izanagi sul corpo putrido di Izanami). Il cinema interviene su questo corpo “sezionandolo” con la macchina da presa mentre è in contorsione, attraverso singoli organi, oppure semplicemente per un accenno di movimento. L’aggressività non ha bisogno della nudità (anzi, quasi la nega): l’atto non viene presentato, ma rappresentato attraverso i codici che il pubblico più immediatamente è in grado di riconoscere. Il ritmo sessuale, esclusivamente maschile, fa sì che la donna, superato il dolore iniziale della violazione, urli di piacere, confermando allo spettatore l’abilità e il potere naturale di seduzione maschile. A tal fine, il corpo maschile è quasi inutile nella dinamica dell’immagine e infatti raramente la macchina da presa vi indugia. C’è soprattutto l’utilizzo di una serie di metafore “liquide” da associare all’immagine (celata) del coito, oltre all’utilizzo di una certa panoplia necessaria alla violazione, in particolare corde[1] e cuoio.

Nelle opere dei “quattro re celesti”, dei “sette dei della fortuna” e degli altri registi cui si è fatto riferimento, questi elementi diventano tracce parziali, da cui si articolano opere sperimentali di deciso spessore. Ciascuno di loro ha messo a punto un universo autonomo, grazie al quale quasi ogni film è immediatamente riconoscibile per l’impronta autoriale. SatØ Hisayasu, per esempio, attraverso i suoi titoli, ha composto il canto dell’esistenza vissuta nel complesso labirinto di ossessioni e alienazioni etero e omosessuali. Le tinte del suo cinema sono tra le più cupe e violente: omicidi, cannibalismi, torture d’ogni genere, tutto ciò che è estremo serve per denunciare l’alienazione dell’individuo nella società fittizia e quasi virtuale contemporanea, che a suo parere ha ceduto al sopravvento della tecnologia. In un certo senso, come avviene nel cinema di Tsukamoto Shin’ya, la violenza è per lui un sistema per instaurare un contatto con altri individui e anche per riguadagnare (seppure attraverso la lacerazione) la fisicità, poiché per i suoi personaggi il dolore rappresenta una prova dell’esistenza in sé.

Il cinema di Zeze Takahisa, alternato tra pink e mainstream, è carico di riflessioni metafisiche sulla vita e sulla società. Ricorre molto meno alla violenza rispetto a Sato, preferendo una sottile venatura umoristica. Si avverte il supporto intellettuale infuso nei suoi film, tutti tematicamente di spessore, per quanto calati in ambienti diversi. Molti sono gli episodi di cronaca e le istanze sociali con cui si intersecano le sue storie: la natura in ogni sua manifestazione cita di continuo il ruolo dell’individuo che, spesso passivamente, si presta ai più grandi giochi di potere sella società. Zeze è stato anche l’autore del primo pink girato in digitale, Tokyo X Erotica (id., 2001), tecnica grazie alla quale ha potuto svolgere, nella dimensione dell’incubo surreale, le sue ricorrenti visioni legate a vita, morte e rinascita.

Più lineare lo stile di Sano Kazuhiro e Sato Toshiki: il primo nel rigore drammaturgico e nella precisa caratterizzazione dei personaggi (di solito perdenti che si trovano a una svolta), il secondo nell’appassionata e a tratti ironica descrizione della vita quotidiana, colta attraverso ritmi sempre diversi (action, melodrammatico, di riflessione sociale).

Vastissima anche la produzione filmica dei “Sette dei della fortuna”: anche nel loro caso, l’osservazione delle pieghe della società e dei suoi rapidi mutamenti, citati nella metafora della sessualità come punto di raccordo tra identità, ha prodotto risultati particolari, con alcuni titoli premiati in festival internazionali. Un esempio su tutti: The Glamorous Life of Sachiko Hanai (Hatsujo kateikyoshi: Sensei no aijiru, lett: Eccitante insegnante privata: Il succo dell’amore della maestra, 2005) di Meike Mitsuru, irriverente commedia satirica (con un’invettiva rivolta anche a Bush) farcitissima di erotismo surreale, che gioca con le citazioni di film di vario genere per una macedonia dall’effetto molto divertente.

Nel loro cinema trova uno spazio inedito la profondità psicologica femminile — le emozioni delle protagoniste di Tajiri Yuki e Imaoka Shinji, tra i tanti, sono spesso trattate con delicatezza di toni —, un effetto di cui è complice la ricorrenza nelle scene di alcune attrici, tra cui Sasaki Yumeka, che hanno guadagnato una complicità emotiva con gli spettatori. Tra i personaggi muliebri più interessanti, per esempio, le donne tormentate del cinema di Hiroki RyËichi pongono costantemente in discussione la propria identità attraverso il sesso, cercando nervosamente di definire un proprio ruolo nella società, di cui non si sentono mai appieno protagoniste. Tra i suoi film più celebri, I Am an SM Writer (Futei no kisetsu, lett: La stagione dell’infedeltà, 2000), adattato da un’opera del più famoso scrittore di romanzi erotici a sfondo sado-masochistici del Giappone contemporaneo, Oniroku Dan. Il film racconta dello scrittore di racconti sado-maso Kurosaki, che si ispira per la sua scrittura alla vista di giovani modelle legate, trascurando per la sua attività una moglie sempre più inquieta; quando perde la donna, il desiderio che prova ancora per lei si traduce nell’ispirazione per un nuovo racconto. La relazione letta attraverso le sensazioni di una donna che, come nel caso della moglie dello scrittore (che lo tradisce perché trascurata), utilizza la sessualità senza sentimento, è un tema diffuso nella filmografia di Hiroki, in particolare nei suoi titoli più recenti. Uno dei migliori risultati in tal senso è offerto da Vibrator (id., 2003, presentato alla Mostra del cinema veneziana): in questo caso protagonista è una giovane scrittrice in preda a un forte sbandamento interiore, che da un lato riversa in alcolismo e bulimia, dall’altro la porta a “sentire delle voci”. La relazione sessuale anonima con uno sconosciuto, incontrato in un piccolo supermercato, le permette di sfogliare i vari strati delle proprie ossessioni, rimettendosi gradualmente in gioco, e finalmente uscire dal suo stato abulico. La sua catarsi — dolorosa, necessaria — si conclude nel punto di inizio, quando cioè i due si separano e lei torna alla vita precedente. A questo punto nulla è cambiato nella sua esistenza, ma la vita non è più per lei un labirinto puntellato da incognite perché privo di valori di riferimento; la sua generazione, quella delle trentenni che hanno ormai perso i tanti modelli radicati nell’immagine femminile di mogli-madri, è estremamente fragile e potenzialmente versata all’auto-distruzione. Il cinema di Hiroki intravede per loro una svolta positiva, poiché permette ai suoi personaggi di affrontare con successo il passo più difficile: reinventare la femminilità.

[1] Kinbaku: letteralmente significa “legatura stretta”, conosciuto anche come shibari (legare). Si tratta di un’arte antica, che risalirebbe alle pratiche di tortura verso il nemico applicate dai samurai in periodo Tokugawa. Ben diverso dalle pratiche di bondage occidentali, il kinbaku viene effettuato legando il corpo femminile con delle corde particolari, cioè in canapa o lino, seguendo degli schemi precisi a seconda dei punti del corpo su cui si vuole esercitare pressione e della generale iconografia finale (l’espressione himo no bunka, cioè “cultura della corda”, rende l’idea della raffinatezza di tale tecnica, elevata ormai a cerimoniale).

[1] Acrobazie: Le zone genitali “incriminate” vengono evitate grazie a particolarissimi angoli di ripresa, a primi piani su altri particolari dei corpi, da offuscamenti a effetto nebbia o mosaico, oppure nascosti da oggetti (mobili, lampade) frapposti tra loro e la macchina da presa. Grazie alle acrobazie effettuate per evitare la rappresentazione esplicita dei genitali, si è nel tempo creata una visione più feticistica del corpo, legata alla sublimazione delle poche parti visibili, o esaltata dall’erotismo negato alla vista.

[2] La donna nell’ombra: Il nome a cui si lega la produzione dei “Quattro Re Celesti” e dei più giovani “Sette dei della fortuna”, oltre che di molti altri registi di film pink, è Asakura Daisuke, pseudonimo maschile di Sato Keiko, presidentessa della Kokuei, che ha più di tutti creduto nelle potenzialità di questi autori.

[3] La consacrazione: Nel 1993, la prestigiosa sede tokyoita dell’Athénée Français ha dedicato un programma speciale al cinema degli Shitenno, insieme alle opere di altri registi sperimentali come ÷ki Hiroyuki. A questa prima consacrazione, grazie al successo della rassegna, si è aggiunta una presentazione delle loro opere al Rotterdam Film Festival, un evento che ha definitivamente contribuito a estenderne la fama. E’ seguita, nel 2000, la consacrazione dei “Sette dei della fortuna”, anche loro presentati all’Athénée Français.

Estratto da Metamorfosi - Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese, Epika, 2010

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