top of page

Terayama Shuji: Nascondino pastorale (1974)

Den'en ni shisu (Nascondino pastorale, 1974).

E’ l'opera che, con Kusameikyu, ha più capillarmente tessuto un sistema di linguaggi grazie al quale ha potuto ridurre a quintessenza i luoghi di conoscenza già noti allo spettatore nella dimensione onirica e nella vita stessa.

L'aspetto più rivoluzionario sta nel fatto che pur abbattendo, come vedremo, le strette pareti di campi di conoscenza pre-acquisiti dallo spettatore, Terayama non vi oppone un mondo e una morale alternativi, o un'antitesi di fronte alla quale questi si senta schiacciato e colpevole, ma al contrario lascia un grande irrisolto, lo spazio di un'assenza, in cui tutto può esistere come finzione e niente e per questo assoluto.

Siamo indotti all'immedesimazione in questo nuovo mondo attraverso un sistema che si potrebbe definire di "disturbo" o di " interferenza" sui normali parametri percettivi. In particolare, Terayama agisce lungo tre archi diegetici, intersecanti e interagenti, tesi direttamente dallo schermo alla sala dove lo spettatore siede, e viceversa:

1) connessione spaziale: determinazione logistica dei vari elementi della scena;

2) connessione temporale: il tempo e la sua relatività;

3) connessione simbiotico: spazio, tempo, autore e spettatore comunicano tramite vari linguaggi, non necessariamente verbali.

La connessione spaziale, come momento primo della finzione, e quella che traspone la metafora della casa di Aomori intesa come nucleo uterino nel percorso di nascita-crescita del ragazzo, nel cuore di Tokyo, a Shinjuku, reso altrettanto claustrofobico dal susseguirsi di volti, auto e segni intorno ai personaggi. Entrambe le dimensioni potrebbero essere punti qualsiasi del mondo, quindi svuotati di ogni peculiarità prospettica o di sensi strutturali determinati. Ma entrambi i "luoghi", familiari a ogni spettatore, subiscono l'interferenza di un terzo luogo, la montagna o campagna come spazio illimitato, territorio di paura e non crescita perché, mancandovi le mura di riferimento, e con in più l'insistenza del vento (sostanza spirituale), offusca dei confini "necessari" come quello tra vita e morte. E infatti nella montagna che vive la sciamana che mette in contatto con i morti, ed e sulle immagini della montagna che Terayama disperde i limiti visibili offerti dal colore, sostituendovi un'impasse monocroma, propria della memoria in quanto presente.

La connessione temporale, quasi elemento principale del film, insiste proprio su questa logica, e cioè che la memoria del passato ha ragione di esistere solo nel presente, e ne è quindi strettamente dipendente. Per obliterare un ricordo e necessario apporvi una modifica, o "cancellarlo" tramite un'altra idea o esperienza. Dunque esiste l'infanzia nella memoria perché vi ha inciso dei segni ancora presenti: come componenti di un mondo passato, gia svolto e finito, non sono che accenni di finzione. Da questa equazione se ne ricava che anche il presente e finzione, e cos) tutti gli elementi che vi sono assoggettati. Primo fra tutti e l'orologio-tempo, paradigma del "tempo visibile" e strumento in grado di distillare lo svolgersi storico. Dato il suo potere di centellinazione, diventa movimento biblico nella casa del ragazzo, un po' come se scandisse il tempo di gestazione uterino, e cessa di segnare le ore quando il ragazzo desidera la circoncisione o premedita il kakeochi (fuggire da casa), come secondo taglio al cordone ombelicale che lo lega alla madre.

Nello scambio intessuto con lo spettatore, questa fase corrisponde alla scena in cui il film apparente termina drasticamente aprendosi in un secondo film. Un po' come il sipario alla fine di una rappresentazione teatrale, lo spettatore prova il disturbo proprio di un black-out e deve riconcepire un'idea di tempo logico in cui ricollocare la storia.

Anche il protagonista, che dovrebbe rappresentare il riferimento fisico-temporale del racconto, viene invece messo in scena in tutte le sue scomposizioni, come ragazzo e come adulto allo stesso tempo, icona speculare dell'io narciso di ogni spettatore. Il personaggio e il suo doppio si alimentano dello stesso amore-odio verso la madre, e sono il prodotto del "prima-dopo" rispetto alla nascita, cioè la partenza dalla campagna alla città. Appartengono alla logica circolare del film, circolare come il movimento delle girandole in primo piano all'inizio, o come l'Osoresan che rotea su se stessot8, o ancora come il turbinio del vento e come un tempo senza inizio ne fine.

Infine, e sempre per interazione, si sviluppa la connessione simbiotica del film, cioè la scelta di linguaggi "altri" rispetto al normale ritmo del racconto. Prima di tutto le poesie, proposte come percorsi di lettura dell'immaginario visivo ma che, proprio per l'assenza che creano come accenno di assoluto, costringono a una ricerca più profonda del senso. Poste in sovraimpressione didascalica alle immagini e "lette" (con in più, quindi l'interferenza di una voce estranea alla storia, ma a ribadire la presenza costante dell'autore), servono anche a recuperare gli eccessi di disorienta mento creati nello spettatore, e offrirgli nuove chiavi d'interpretazione.

Altro linguaggio usato e il colore, linguaggio autonomo, indipendente da quello verbale, che e in grado da solo di significare le parti delle scene Oltre al fin troppo evidente richiamo esercitato dal circo nella sua scomposizione di tinte, un gioco onirico da ricostruire sui sensi, il colore viene usato per distinguere passato e presente (a colori il primo, monocromo secondo), o per accentuare dei microcosmi allegorici. Per esempio è rosso tutto ciò che lega alla sfera sessuale, come nella danza della donna che con duce il ragazzo al mondo sessuale degli adulti, o nel colore del lago come liquido amniotico; e giallo il presente cos) da smussarne tutte le spigolature; sono indaco Osoresan e il volto della sciamana, con inserti di rosso ( due colori del male nella "maschera" kabuki).Infine il nero e sempre scrittura di morte, come il decomporsi dello schermo alla fine della prima pellicola, o nelle spennellature dei corvi che intersecano i film e le vedove che attraversano le scene obliquamente o frontalmente in eterna processione e infine i fusuma che si chiudono violentemente sulle immagini.

Oltre che nei colori, le immagini si rappresentano in una gamma illimitata di forme, volutamente artefatte per permetterne una posta in rilievo. Scorre cos) un mondo di verosimiglianza di oggetti di carta metonimici e un bestiario simbolico (il cane e la mucca come simboli della fertilità il serpente e la sua sinuosità come doppio della madre, eccetera).IL tutto e frammisto a personaggi carichi di significato: una donna cannone che prova piacere nell'essere gonfiata, e che per prima introduce cos) il ragazzo al mondo sessuale, accompagnata da un nano, parodia dell'adulto-bambino; ragazza-madre che vive isolata in una specie di ubuya (stanza separata dall'abitazione, addetta ai parti) a Osoresan, al cui interno l'acqua rappresenta il liquido amniotico del suo essere biologica mente concluso, e che poi diventa la donna violentatrice, trasponendo l'ubuya nel tempio in cui prende il ragazzo; la figlia di questa donna, di cui viene presentata la storia fino alla morte, e con il successivo reincarnarsi nelle immagini dello hinadan (pedana su cui si dipongono le bambole della festa delle bambine) che scorrono sul fiume. Infine, una varietà di personaggi "minori", come la donna con cui premedita la fuga e l'uomo (terzo rispetto al ragazzo) con cui in realtà questa fa shinju, e tutti quelli del villaggio e del circo.

Colore e forma, quindi, diventano i limiti percepIbili dello sguardo dello spettatore e degli stessi personaggi. La trasmutazione da parte attiva a passiva sulla banda diegetica avviene per mezzo della maschera, alterna-tivamente macchina da presa e occhio dell'autore/spettatore. La maschera è, in senso lacaniano, ciò che più accentua lo sguardo, poiché viene elevata a frammento compiuto dai limiti tracciati intorno agli occhi. Ma d'altra parte, dal retro della maschera, questa diventa anche il confine stesso dello sguardo. Lo sguardo come maschera del film è dato delle infinite aperture che Terayama dispone nelle e sulle scene. Da queste lo spettatore, e spesso il personaggio stesso, accede allo svolgersi della finzione e a sua volta ne viene coinvolto. Aperture nel tendone del circo, lacerazioni nelle pareti, porte e finestre, tatami che conducono a un mondo sotterraneo di morte (Osoresan), o che lasciano trasparire il proprio passato, tutte si dilatano nella scena finale dell'abbattimento delle pareti della casa nel cuore di Shinjuku che, se a prima vista fa pensare alla liberazione dagli stretti confini della casa, a una più attenta analisi si rivela invece un'amplificazione di questi stessi limiti. Oltre la storia, oltre Aomori e la casa e il film, il racconto con le sue ossessioni continua.

Estratto da "FORMA DELL'IMMAGINE E IMMAGINE DELLA FORMA: ITINERARIO META-VISIVO NELL'OPERA DI TERAYAMA SHUJI" in Il Giappone, Volume XXXII, 1994,

Featured Posts
Recent Posts
Search By Tags
Non ci sono ancora tag.
bottom of page